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20160319212555 03afa529 meI turisti giapponesi sono già in fila molto prima che gli organizzatori innalzino l’arco e i podisti giungano alla spicciolata per questa prima edizione della 6 ore della Reggia di Caserta. Sotto il cielo azzurro e investita dai raggi del primo sole del mattino, desta stupore la grandiosità delle proporzioni della facciata. Dicono che la facciata vera e propria, quella in cui il Vanvitelli ha profuso tutto il suo genio, sia quella interna rivolta verso lo spettacolare parco da tutti ritenuto di una bellezza senza pari, non questa esterna che volge lo sguardo sulla vastissima piazza Carlo III, in cui è stato ricavato un circuito di 1.406 m da percorrere il maggior numero di volte possibile.

Il grande orologio posto centralmente a livello del piano attico del palazzo alto 36 m segna le ore 10:00 quando viene dato il via. Il primo tratto viene corso sotto il sole primaverile sul compatto sterrato dei viali in via di rifacimento, fra siepi di quanto resta di un vecchio giardino all’italiana ed erba incolta, e un secondo tratto all’ombra di querce secolari, sulla dura pavimentazione di pietra lavica che delimita la piazza di forma ellittica per via di ampie costruzioni concave poste al lati della Reggia, quasi a ricordare l’andamento del colonnato della basilica di San Pietro a Roma.

E’ un giro ripetitivo, e sebbene l’abbia percorso 37 volte per un totale di 52,609 km, le emozioni sono state infinite, dovute alle prospettive sempre diverse offerte da questo enorme corpo di fabbrica rettangolare lungo 247 m. Lo sguardo ha indugiato sulle mille finestre sormontate da timpani curvi e triangolari, sulle decine di colonne, sulla balaustrata a chiusura dell’ultimo piano, e per quanto tentassi di classificarlo stilisticamente in modo unitario mi appariva ora classico, ora barocco, ora rinascimentale.

Alle ore 12:00, dopo soltanto due ore di gara, viene servito il pasta-party. Nulla da eccepire, è proprio l’ora in cui si è solito pranzare. Ma a che serve in una gara della durata di sei ore? Invece di appesantirmi lo stomaco e sottrarre sangue dai quadricipiti per inviarlo all’apparato digerente, ho preferito alzare lo sguardo nel momento in cui il sole allo zenith rendeva più splendenti i colori della Reggia e più verdi le colline che la cingono ad arco posteriormente.

Intanto i podisti, sempre gli stessi, continuavano ad inanellare giri su giri senza mai stancarsi, mentre gli speaker si davano il cambio ogni ora, e freschi freschi riversavano sul percorso nomi, cognomi, numeri, classifiche, impressioni, commenti e previsioni.

Nell’ultima ora di gara, quando il passo è diventato rumoroso e strisciante, il mio sguardo si è posato sul padrone di casa. Buona parte dell’ala sinistra della Reggia era occupata da una gigantografia: “Carlo III, costruttore di palazzi, città e regni. A 300 anni dalla nascita (1716 – 2016)”. Fu lui, re Carlo di Borbone, a dare l’incarico a Luigi Vanvitelli di costruire la residenza reale più grande e più bella del mondo. Non gli toccò abitarla, nel 1759 passato sul trono di Spagna e cambiando il nome in Carlo III, come sempre avevano fatto i regnanti nel momento di assumere altre corone. Se la godette totalmente a scrocco Vittorio Emanuele II di Savoia, che la derubò a suo cugino Francesco II di Borbone in nome del popolo italiano. A differenza di Carlo III, il re sabaudo non volle cambiare nome, come a rimarcare di non aver fatto l’unità d’Italia, ma semplicemente di averla annessa al Piemonte. Del resto, non si poteva pretendere di più da un sovrano che s’intendeva esclusivamente di donne e caccia. Come è successo altre volte nella storia, i veri patrioti risorgimentali che erano repubblicani (e anticlericali) e che avrebbero potuto fare un’Italia più giusta, furono relegati all’oblio. Solo quando i Savoia furono mandati in esilio si ricominciò a balbettare il nome di Mazzini, ma ormai il suo messaggio etico era perduto per sempre.

A riportarmi alla realtà, hanno provveduto i fuochi d’artificio che hanno segnalato la fine della gara. Sono le ore 16:00, il cielo è limpido e il sole ancora vivido, per cui ai botti non seguono nel cielo i giochi di colori fantasmagorici. Dopo sei ore di energie e liquidi perduti, la fame è da lupi, e tutti si aspettano il pasta-party previsto dal programma. Quello inutile delle ore 12:00 ha avuto luogo, di quello utile del fine gara neppure l’ombra, e bisogna accontentarsi del semplice ristoro. A saziare i sensi provvede l’ultimo sole che, tramontando, manda gli ultimi bagliori sulla Reggia.