Era dal 5 novembre del 1967 che non si disputava la Maratona di Lecce. Su un percorso impegnativo che attraversava ben dieci comuni salentini, vinse il sardo Antonio Ambu in 2:27:04, in volata sul palermitano Benedetto Mastroieni. Partirono in 31 da Porta San Biagio; in 20 giunsero al traguardo.
Dopo circa mezzo secolo, irrompe nuovamente sul palcoscenico delle maratone italiane, proponendosi con un brand accattivante “Maratona del Barocco” e dandosi arie “da grande” fissando il termine delle iscrizioni ben 17 giorni prima della data di svolgimento. Neppure New York si era presa tanto lusso alla prima edizione! E’ andata bene, avendo racimolato più di 1000 iscritti. Per decine di ritardatari non c’è stato nulla da fare. Le regole sono state rispettate a tal punto che ad un iscritto, che aveva percorso 1.032 km per giungere nel Salento e consegnato già il pettorale, il sabato sera gli è stato comunicato di essere stato depennato dalla lista di partenza per essere il certificato medico scaduto da tre giorni. Eppure a Lecce trionfano le linee sinuose e tonde del barocco, non quelle spigolose del gotico!
Con queste premesse c’era da attendersi una gara perfetta. Tutto si è svolto alla perfezione, ad eccezione dei ristori: l’acqua tanta fino ad annegare, mentre le bevande zuccherine e qualche solido presenti solo al 36° km; ottimo il ristoro finale. Non credevo ai miei occhi che un’organizzazione così pignola potesse essere stata deficitaria su un argomento molto importante per la buona riuscita di una gara di 42 km, per cui sono andato a rivedere il Regolamento: “Previsti numero 10 ristori con bottiglie di acqua e altro (frutta, integratori, ecc.)”.
Il pittoricismo del centro storico, la plasticità dei viali alberati che lo delimitano, la monotonia della superstrada, la Riserva protetta dell’Oasi delle Cesine e la marina di San Cataldo con il suo faro, questa è stata, in sintesi, la Maratona del Barocco. E poi protagoniste sono state le tre porte che permettono l’ingresso nella città racchiusa nel perimetro delle mura cinquecentesche.
Nella piazza antistante Porta San Biagio, incassata nelle mura urbiche, è stato allestito l’expo Maratona e la distribuzione dei pettorali. Presso Porta Rudiae, sormontata da un Sant’Oronzo benedicente, patrono della città, è avvenuta la partenza; portava nell’antica città di Rudiae, patria di Quinto Ennio, il celebre poeta latino che si vantava di avere “tria cordia” (tre anime) per saper parlare latino, greco e osco. Dopo un centinaio di metri dal via, preceduta da un obelisco, appare la monumentale Porta Napoli, il cui fornice costituisce l’Arco di Trionfo in onore di Carlo V.
Le porte vengono semplicemente sfiorate. Al momento, non è permesso entrare in questa aristocratica città che ha snobbato le tentazioni della modernità. Ci tocca fare anticamera lungo i veloci viali, fiancheggiati da querce, che la circondano. Dopo alcuni chilometri vi penetriamo, e ci troviamo catapultati in pieno Sei-Settecento per via delle scenografie barocche: chiese e conventi a non finire, fastosi e leggiadri palazzi nobiliari, raccolte piazzette, tutti rigorosamente in tenera pietra bianca locale che con il tempo ha assunto calde sfumature dorate. Un’atmosfera architettonica deliziosa in cui la fantasia si esprime senza limiti nella realizzazione di colonne tortili, frontoni curvi, vasi di fiori e frutta, incredibili ceselli, mostri, centauri, cariatidi, putti, nastri svolazzanti, portali sormontati da stemmi, finestre inquadrate in cornici. Tutta opera del genio di architetti e scultori salentini.
Forte è il contrasto quando, abbandonate le vie tortuose e strette della città vecchia, intorno al 14° km si fila lungo la superstrada che rettilinea corre verso il mare. Fin dalla partenza mi sono accodato ai pace maker delle ore 4:15 con l’obiettivo di abbandonarli dopo la mezza-maratona e lanciarmi all’inseguimento di quelli delle 4 ore, approfittando del percorso totalmente pianeggiante della maratona.
Ma è proprio al 21° km che comincio a staccarmi dal mio gruppo, complice la totale assenza di ristori con bevande zuccherine. In una gara fino alla distanza-maratona si può fare a meno di soluzioni isotoniche, non così per i carboidrati che hanno un’autonomia di 1-2 ore. Fino al 27° km riesco a limitare i danni perché il percorso è diventato vario e gradevole per l’attraversamento del fitto bosco di lecci e pini dell’Oasi Le Cesine, e per il passaggio lungo la costa adriatica sulla quale s’innalza maestoso, in un’insenatura che ospita i resti del porto di Adriano, il faro di San Cataldo, sorretto da una torre ottagonale di 23 m.
Lasciato l’incanto del mare e imboccata la superstrada per il ritorno in città, i palloncini viola delle 4:15 sono totalmente scomparsi alla mia vista. Soffia un forte vento contrario che tenta di farmi indietreggiare e ributtarmi in mare. Al 36° km, si passa lungo l’impianto di Via del Mare, teatro delle gesta sportive del Lecce calcio. Sotto gli alti pilastri di cemento che reggono le tribune, trova riparo l’unico ristoro completo della gara. Assumere solidi sarebbe sciocco, me li ritroverei inutilizzati nello stomaco all’arrivo; mezzo bicchiere di coca cola, e subito via.
L’unico pensiero è raggiungere il traguardo quanto prima, e l’alto campanile del Duomo, puntato verso il cielo come un dito, sembra quasi indicarmelo da lontano. Non mi interessano più le splendide architetture che ho attentamente visitato nel lungo fine settimana. Giunto in Piazza Sant’Oronzo, sono ancora in grado di dare uno sguardo al salotto della città, che mi appare scenograficamente composito con palazzi barocchi che si accostano a monumenti romani, ad architetture rinascimentali, a strutture ottocentesche e a edifici littori, tenuti armonicamente insieme dal comune denominatore rappresentato dalla pietra leccese.
Taglio il traguardo in 4:25:03 morto, ma vivo. Mi illudevo di guadagnare una decina di minuti sui pace maker delle ore 4:15, invece li ho persi.
Non è possibile fare un confronto fra i tempi delle due maratone disputate a Lecce, per essere stato diverso il percorso.
Nell’edizione di 50 anni fa, al primo posto si classificò il sardo Antonio Ambu e al secondo posto il palermitano Benedetto Mastroieni. Nell’edizione di quest’anno, ai primi tre posti ci sono tre marocchini tesserati con società italiane.
Non ci furono donne nel 1967. Quest’anno, al primo posto si è classificata Daniela Francesca Hajnal della Saracenatletica, riferita come italiana; al secondo posto la marocchina Janet Hanane della LBM Sport Roma.
Ne è passata di acqua sotto i ponti!