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Schwazer Alex 19 10 11 650x488 Foto di Roberto Mandelli

Troppo spesso nello sport non c’è spazio a null’altro se non alla ricerca ossessiva del risultato. Nulla di sconveniente. A nessuno piace perdere e, seppure è vero che per esaminare un fatto sportivo non ci si può soffermare sui soli risultati, è altrettanto scontato che essi condizionino appunto tattiche, giudizi e carriere di atleti, d’allenatori e dirigenti e, conseguentemente, assumano una qual certa priorità.

Sino a quando si è nel campo del lecito, ognuno è padrone di gestire la trance agonistica nel modo che meglio crede. I problemi sorgono piuttosto quando si sconfina e, soprattutto, se diventa non solo espressione del singolo ma pratica tanto diffusa da far temere che gli anticorpi non siano del tutto appropriati. Non lo scopro certo io ma, se non ci fosse necessità di vincere, probabilmente non ci sarebbe neppure doping, e non ci sarebbero avvenimenti sportivi sempre più inficiati da pratiche illecite: non per nulla la storia di alcuni titoli olimpici — come dei vincitori di campionati di calcio e di Tour de France — è rivista e riscritta a distanza di anni. Quello che c’è da chiedersi è se si faccia tutto il possibile per estirpare una simile piaga o, se anche in questa lotta, si lasci spazio a qualche indecisione, sempre nell’ottica che in fondo conti solo vincere. Una simile domanda sorge spontanea leggendo della polemica ormai deflagrata sulla stampa specializzata per il ritorno in azzurro di Alex Schwazer.

Mentre scrivo è arrivata la convocazione ufficiale e l’atleta altoatesino — di cui, confesso, sono stato tifoso accanito avendolo visto all’opera quando era giovanissimo — potrà gareggiare nella Coppa del mondo a squadre del prossimo fine settimana e giocarsi così la selezione per le Olimpiadi. La decisione non era delle più facili e solleverà con probabilità un polverone, non solo per il fatto in sé stesso, ma anche perché crea un precedente che condizionerà le scelte future.

Da una parte ci saranno i forcaioli, i quali metteranno in risalto il fatto che chi indossa la maglia azzurra deve essere d’esempio per i giovani; dall’altra i legalisti, che evidenzieranno come un errore non possa pesare per tutta una vita e magari richiameranno la parabola del figliol prodigo, tanto per toccare le corde più profonde del lettore. Ci sarà, in definitiva, tutto uno scadere in considerazioni di usuale morale oppure di spiccio legalismo, o peggio ancora, di mero comodo con il semplice intento d’avere ragione e di far finire nell’ombra la vera essenza del problema.

Non sfugge certo a nessuno cosa smuova il tutto: sia l’indignazione, talvolta sin troppo accentuata di chi vorrebbe condannare a vita un atleta risultato dopato, sia il buonismo, per certi versi non esente d’un po’ d’ipocrisia, di chi è per il perdono, non prescindono mai dallo spessore dell’atleta coinvolto. Non si fosse trattato d’un atleta da medaglia, la coscienza di taluni non sarebbe stata probabilmente scossa e, conseguentemente, la misericordia evangelica di talaltro non avrebbe avuto modo di sussultare. Invece, riguardando un campione olimpico, il timore magari inconscio di vedere oscurata la propria presenza e, dall’altra parte, la paura concreta di tornare ancora una volta a mani vuote, ha scatenato (e scatenerà) tutta una serie di motivazioni che non so fino a qual punto risulteranno effettivamente sentite.

Soprattutto l’attuale dirigenza FIDAL, i cui risultati sono stati a dir poco deficitarii, ha più d’un motivo per mettersi la mano sul cuore e mostrarsi particolarmente pietosa. Se poi si pensa al disastro dell’ultimo mondiale, si capisce benissimo come una possibile medaglia olimpica assuma particolare importanza e non possa certo essere immolata sull’altare di utopici principi etici.

Se però si tenta di analizzare la questione, facendo la tara ad ogni possibile motivazione di maniera, si potrebbe scoprire che la convocazione in azzurro d’un atleta che ha subito una condanna così grave per pratiche doping potrebbe rivelarsi occasione di una brutta figura per la FIDAL.

E vediamo il perché.

Ampio spazio è stata dato all’opinione manifestata da Malagò, presidente del CONI, che così s’è espresso sulla vicenda: “Se qualcuno ruba e viene condannato, alla fine della pena torna in libertà e può tornare a fare quello che faceva prima perché c’è un percorso di riabilitazione. Ogni opinione va rispettata, ma in tema di doping oggi esistono delle regole che prevedono un certo tipo di sanzioni e comportamenti. Ognuno le regole le può trovare giuste o sbagliate ma queste sono le regole e dobbiamo attenerci a queste. Tutto il resto lascia il tempo che trova”.

Un discorso formalmente corretto e che, così com’è strutturato, non fa una grinza. Peccato, tuttavia, che Malagò abbia mancato di soffermarsi su due argomenti non del tutto marginali: la “Carta Etica” adottata in pompa magna, ed in piena autonomia, dalla FIDAL, e la pena accessoria in essa prevista per particolari tipologie di atleti condannati per doping.

Si ricorderà infatti che la Federazione di atletica ha da poco codificato una propria Carta Etica il cui fine esplicito è “di elevare ad un nuovo livello di sensibilità i principi morali e i valori etici dell’Atletica praticata in Italia”. Certo essa non contiene norme giuridiche e non va valutata alla stessa stregua — essendo un codice etico, non pone infatti obblighi o sanzioni di carattere giuridico — però determina principi ideali cui conformare la propria condotta morale. In particolare poi la Carta Etica prevede espressamente che “chiunque incorra in squalifiche pari o superiori ai 2 anni, sulla base delle attuali normative anti-doping, perde, da quel momento, il diritto a vestire la Maglia Azzurra, simbolo sportivo dell’Italia”.

Pertanto, se da un punto di vista strettamente giuridico qualsiasi atleta ha titolo, scontata la pena, ad essere convocato in nazionale, ciò non toglie che, nei casi di squalifica pari o superiore ai due anni, si finisca per rientrare nelle previsioni del principio appena citato che, invece, stabilisce la pena aggiuntiva della perdita del diritto a vestire “la Maglia Azzurra”.

La Carta Etica è perentoria in merito e, pur non essendo una norma giuridica, impegna in tali evenienze la Federazione d’atletica ad escludere l’atleta dalla nazionale. Non a caso essa prevede un solenne vincolo comportamentale per tutti i soggetti cui si rivolge: “Noi, atleti, allenatori, dirigenti, giudici e familiari, assumiamo con totale consapevolezza e piena responsabilità i principi nascenti da questa Carta Etica, impegnandoci a rispettarli ed a tutelarli in nome della Atletica, madre di tutti gli sport”.

Sono pertanto sì principi etici ma ai quali la federazione si è conformata per libera scelta ed in piena cognizione, ritenendoli strumenti indispensabili per combattere il doping e le pratiche sportive illecite, e che s’è inoltre obbligata a rispettare ed a tutelare in nome dei superiori interessi dello sport.

Ciò stante, appare difficile convenire con l’advisor della marcia, Antonio La Torre, quando dichiara (nell’articolo Schwazer, c’è la convocazione – Didoni: “lui è stato favorito” di Walter Brambilla apparso sul Tuttosport del 3.5.2106) “che tutte le regole sono state rispettate”. C’è infatti da chiedersi a questo punto che valore dare ai principi codificati dalla Carta Etica se essi rimangono lettera morta, proprio quando dovrebbero essere operanti. Non si può infatti negare che la FIDAL abbia in maniera palese disatteso l’impegno liberamente assunto, nel momento stesso in cui ha convocato in nazionale un atleta squalificato per doping per più di due anni. Né si capisce per quale motivo si è voluto realizzare un codice etico, se poi ci si dimentica che esiste.

Sempre nell’articolo citato, Antonio La Torre commenta: “Alex è giusto che ritorni. Roma sarà una grande occasione per una specialità come la marcia, disciplina francescana che troverà nel suo centro storico la sua massima espressione”.

Conveniamo che la marcia possa anche essere ritenuta disciplina francescana. Però, considerati gli squalificati per doping, potrebbe sorgere il sospetto che gli atleti in questione abbiano dato una propria personale interpretazione della pratica francescana.

 Ma, come si diceva all’inizio, l’importante è vincere. Il resto, codice etico compreso, è del tutto secondario.