La perfezione si paga… con gli interessi!
Correva il 1999, Podisti.net era nato da 12 giorni, e il sottoscritto, sollecitato da un grande supermaratoneta di allora (l’ingegner Antonino Morisi da Persiceto) andò a questa gara che mi venne definita la migliore del mondo.
E così la raccontai, molto in breve (urgeva la partenza per le vacanze, e anche gli spazi internet erano più limitati)
Davos, 31 luglio: la fine del mondo
Prima di morire, tutti devono andare a Davos, alla Swissalpine Marathon: non è necessario fare i 78 km del percorso intero, che pure hanno attratto anche quest’anno più di mille partenti; ma “basta” una maratona di 42 (altri 900 partenti), con due cime di 2600 metri da scalare dopo la partenza dai 1350 metri e prima dell’arrivo (a Davos appunto) a 1550. E c’è anche la maratona a staffetta (3 componenti), e la 30 km quasi pianeggiante, oltre alle gare per bambini. Panorami da togliere il respiro, organizzazione perfetta (incluso il servizio ferroviario gratuito per i vari punti di partenza e per il ritorno), tifo incredibile - anche in alta quota, anche i pastori! -, classifiche esposte meno di mezz’ora dopo l’arrivo di ciascuno. Una delle cose più incredibili è che tra gli organizzatori ci sono le ferrovie Retiche e le Poste: ve l’immaginate voi, in Italia? Neanche a “Correre” (dove un paio di mesi fa è stato scritto che una maratona in Svizzera bisogna programmarla un anno prima) vorranno credere che si accettavano iscrizioni anche la mattina della partenza.
Da andarci assolutamente. Dicono che meglio ci sia solo la maratona della Jungfrau, guarda caso sempre svizzera.
In questo ultimo weekend, 30 luglio di 17 anni dopo, sono tornato a Davos per l’ottava volta (dopo avere nel frattempo accumulato 7 partecipazioni alla Jungfrau: guarda caso!). Troppo poche presenze comunque, là e lì, per un evento che, lo ripeto da allora, e lo dico più forte dopo tante maratone nostrane di montagna allestite (e presto estinte) a fine luglio, non ha uguali in Europa (cioè nel mondo).
Senz’altro, Interlaken offre all’arrivo il panorama delle tre vette innevate, a quota 4000, che letteralmente ti impedisce di andar via fino al tramonto. A Davos non vedi dei 4000, però sotto l’aspetto podistico hai una possibilità di scelta davvero incredibile, per 9 percorsi diversi dai 10 ai 78 km (solo il sabato, senza citare le gare per bambini e lo ski-roll serale del venerdì), comprese due maratone che partono da luoghi diversi, si incrociano al km 25 e da lì proseguono, insieme alla grande corsa del 78 (che si può fare anche a staffetta).
Le gare più lunghe, pur non essendo ufficialmente dei ‘trail’ (quando è nata Davos, la parola trail non era ancora stata inventata in questo senso) devono superare due valichi alpini sopra i 2500 metri: in comune è l’ultimo, il passo Sertig a 2735 metri dopo 27,5 km; diverso è il primo, sopra quota 2600, che per la K 78 e la K 42 è la Kesch-Hutte, mentre per la S 42 è il passo Scaletta, salito ora in senso opposto, ovest-est, rispetto alla direzione delle corse di Davos fino a due anni fa (quando il Sertig, caratteristico delle edizioni fino al 1998, poi sostituito dallo Scaletta in direzione est-ovest, cioè antioraria, è stato reintrodotto).
Insomma, questo per dire come, all’interno di una manifestazione collaudata e amata (non dagli italiani, che vengono in poche decine e non sanno cosa si perdono, a 150 km da Como), ci sono aggiustamenti a getto continuo: per alcuni anni, accanto alla classica K 42 che percorreva gli ultimi 42 km della gara di 78 km, c’è stata una C 42, che su un tracciato molto diverso presentava un minore dislivello (cioè comunque 1200 metri). Chiusa questa, dal 2015 si è introdotta una S 42 (dove la S suppongo stia per Scaletta-Sertig): corsa che appunto mi mancava e ha costituito uno dei motivi per tornare là, a otto anni dall’ultima presenza. Gara all’incirca equivalente alla K 42: un po’ più lunga (stando ai dati ufficiali, 42,9 km contro 42,2) ma meno pendente (1450 metri di dislivello contro i 1830 della classica): salvo che i frequentatori di Davos sono abituati ad avere una certa percentuale di ‘interessi’ oltre al capitale garantito, e già la mia prima lunga del 2000 dichiarava 75 km, che si rivelarono 78,5 (cifra più tardi ufficializzata). E adesso che coi Gps si fa più fatica a barare, questi 42,9 della K 42 (che erano segnati giusti fino al passo Sertig) dopo, ai cartelli successivi, hanno cominciato ad allungarsi per apparire al termine 43,7 per il mio Gps, e 44,2 per quello di un collega arrivato nei pressi. E il dislivello è cresciuto di quasi 250 metri, sfiorando quota 1700.
Insomma, si paga con gli interessi, purtroppo anche a livello monetario: nei primi tempi, il franco svizzero valeva 1300 lire, e quando arrivò l’euro il cambio rimase inalterato, secondo una proporzione semplice che diceva: 3 franchi=2 euro. Poi sono arrivati i nostri politici e banchieri europei degli ultimi anni, che a forza di finte spending review, di quantitative easing e soccorsi alle banche e altre menate, ci stanno portando alla parità. Ho fatto benzina, la spesa complessiva di FSv 40,50 mi è stata convertita in € 39,60 dalla mia carta di credito; e analogamente, i 120 franchi di iscrizione (tardiva) mia a Davos sono diventati quasi 115 euro. Non dite che la Svizzera è cara, dite piuttosto che siamo ridicoli noi ‘europei’.
E se trovate esosi i prezzi di Davos (a parte il confronto col pettorale di New York…), considerate che nel prezzo è compreso il viaggio ferroviario dal confine della Svizzera fino a Davos, più un biglietto regionale di una settimana su tutti i bus e i trenini locali (peccato che io sia affezionato al viaggio in auto e al rituale picnic, stavolta con cagnolino, al passo del S. Bernardino). Quest’anno a Davos c’era persino un pacco gara “all’italiana” targato Migros (non è uno sponsor di Podnet!), pasta formaggi bevande e cose simili. Non è ahimè più compreso il pasta party, che sebbene modesto era una caratteristica dei primi tempi: le istruzioni dicono che si svolge presso un certo ristorante, ma non precisano che all’uscita del ristorante vi presentano la fattura, con un prezzo-base di 29 Frs più le bevande (dove un litro di minerale sta sui 9 franchi…).
A parte queste piccolezze, va però detto che per il resto siamo alla perfezione, in questa terra che ispirò a Thomas Mann uno dei più bei romanzi di ogni tempo. L’Expo ha sede nel palazzo dei congressi (sede privilegiata del Forum annuale di Davos, dove volta per volta si sono stipulati accordi di pace tra Grecia e Turchia, tra le due Coree, tra il governo sudafricano e l’allora perseguitato Mandela, tra Shimon Peres e Yasser Arafat); palazzo molto ingrandito e funzionale, a onta dell’apparenza esterna di un rivestimento in legno un po’ troppo brunito. Il disbrigo delle pratiche è rapido ed efficiente (e il mio chip personale, della Championchip ora Mikka Timing, comprato nel 1997, va benissimo a costo zero); le informazioni – ad esempio sull’incredibile quantità di mezzi pubblici a disposizione gratuita dei podisti – sono esaurienti; c’è buon numero di stand, compreso uno dove acquisti il pane creato appositamente per la corsa, uno dove puoi dare la “second chance” alle tue scarpe usate, in beneficio di quell’Africa dove non arriva il team Rosa; e un altro di vendita a prezzi tra i 60 e i 120 Frs di scarpe che non convincono Lorenzini (il quale mi aveva fatto un briefing esclusivo mentre passavo sulla tangenziale di Milano).
A 300 metri dall’Expo, di là da un parco dove ci sono anche le “panchine della lettura” (dotate di una cassetta che contiene libri a disposizione di tutti) ha sede lo stadio, teatro di partenza e arrivo della maggior parte delle gare: magnifico impianto dotato di prato in erba artificiale, bella pista di atletica, palaghiaccio (il ghiaccio c’è pure adesso, per gli hockeisti), palasport con spogliatoi, ecc.
Ci si ritrova il sabato mattina, alle 7 i partenti della gara-regina, gli altri in orari distinti: alle due stazioni dei treni i partenti di altre gare, e infine con tutta calma alle 10,30 noi della S 42. Il cielo è limpidissimo e il sole promette scottature, che puntualmente arriveranno, salvo per quanti si presenteranno al traguardo dopo le 18 e dovranno fare i conti con un temporale estivo. Via, al suono della stessa musica solenne dell’avvio della Utmb, e ci si incammina ad andatura calante verso lo Scaletta: 14 km di salita moderata, fino a superare i 2000 metri dell’ultimo villaggio, Dürrboden; poi si va di passo nella sassaia fino al valico (dove troviamo l’ennesimo ristoro, acqua deliziosamente fresca, brodo deliziosamente caldo, integratori, cola, frutta, barrette energetiche); segue una balconata quasi sempre in single-track, con vista sulla valletta bellissima dell’Alp Funtauna (antico luogo di passaggio della gara), e incontro coi colleghi che provengono dalla Kesch e si mescolano con noi nella salita al Sertig e negli ultimi 20 km circa. Brutta la discesa come era stata gradevole la salita, finché non si entra in una stradina bianca, parallela al fiume, che scende in leggerissima pendenza fino al villaggio di Sertig. Si trova poi un meraviglioso sentiero in mezzo al bosco, che svolta sulla verticale di Davos dominandola per gli ultimi 5 km, fino alla discesa identica a quella della 78 di una volta, l’ultimo km e il mezzo giro di pista nello stadio dell’apoteosi.
Gli italiani sono tanto rari che, quando il tappetino-chip all’ingresso dello stadio rileva l’arrivo di uno di noi, lo speaker gli si rivolge chiamandolo per nome e seguitando con “come stai”? Quando lo dice a me, sto ai 200 metri, e 20 metri avanti c’è un collega ormai sicuro del piazzamento: ravvisando una piccola presa in giro, decido di far vedere al popolo rossocrociato come sta un italiano (o “come muore un italiano”?); memore pure di una scritta in dialetto svizzero letta poco prima su una maglietta di un’altra concorrente: “Kämpfa, Kämpfa, Khum!” (“lotta, lotta, vieni!”, magari con un sottinteso erotico), mi butto a tutta nella cosa più erotica che può fare un maratoneta, uno sprint quantificato dal Garmin ai 5’/km (su una media generale tenuta finora dei 9:20). Vinco io (ci si accontenta di poco), e mi fiondo sulle birre (analcooliche) a libera fruizione subito dopo, sedendomi in quella poca ombra che c’è alle 5 di un pomeriggio di luglio. Poi, ripreso il viaggio verso l’uscita, mi mettono al collo una originale medaglia da cui sporgono le corna di uno stambecco, poi una maglietta, e giusto sotto gli spogliatoi un’addetta sforna dal suo computer i diplomi. Bè, sesto di categoria su 24 (27 partiti).
Le classifiche sono esposte in un albo ordinatissimo e aggiornato di continuo: alla fine, diranno di 550 arrivati nella gara maggiore, 670 nella mia (su 780 partenti), 480 nella K 42, e via via nelle altre gare, con 300 bambini nelle corse del venerdì, e una punta di quasi 800 adulti finisher (tra cui 320 donne) nelle due 21, di corsa e walking, partite dal bellissimo villaggio di Klosters dove a volte si vede Carlo d’Inghilterra.
E Davos continua a espandersi: le strade sono già infiorate dagli striscioni di un trail alla fine della prossima settimana; questa volta un trail coi fiocchi, dalle distanze fra i 44 e i 201 km, per il quale forse mi servirà mettere le scarpe di Lorenzini e non quelle reduci dal Bianco che oggi hanno sofferto assai.
E prima di dare l’addio definitivo alla Montagna incantata, dovrò pensarci due volte.