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11 settembre 2001: “Stanno attaccando New York!”

Mi precipito in sala e sul piccolo schermo, come in un film dell’orrore, vedo sbriciolarsi le Twin Towers: ma non è un film.

Povera New York, la mecca di ogni maratoneta, che, almeno una volta nella vita, deve correre la Maratona della Grande Mela.

Le lancette del tempo si mettono a girare vorticosamente a ritroso…

27 ottobre 1992. Finalmente si parte, è tutto l’anno che stiamo preparando il viaggio a New York, a 500 anni dallo sbarco del primo Italiano sul continente sconosciuto, l’America.

Siamo ottanta del Cedas sul pullman da Torino a Malpensa per salire sul Jumbo, che in otto ore ci porterà al di là dell’Atlantico.

Come ogni anno, mio fratello Guido è venuto da Piacenza per partecipare alla maratona internazionale, un rito, che ci siamo inventati per ritrovarci e vivere ancora assieme un’avventura.

Con lui mia cognata e mia nipote; mia moglie non è riuscita a vincere la paura di volare ed è rimasta a casa.

Solite lunghe pratiche burocratiche all’aeroporto e, finalmente, alle 16 si parte.

L’aereo è molto spazioso, si discute, si scherza, si fanno progetti per passare cinque giornate indimenticabili, si guarda un film, si sonnecchia un po’ , si mangia e, come per incanto, siamo già arrivati all’aeroporto di Newark.

Non trovo il mio bagaglio, vado al Luggage Office: “I don’t find my luggage” azzardo nel mio inglese scolastico; il massimo che riesco a strappare all’impiegata è “Outside”. Per fortuna trovo l’assistente di Worbas, che riesce ad agguantare la mia valigia prima che parta per Baton Rouge.

Viaggio di quaranta minuti e si entra in New York.

Tutto è sproporzionato, al di là di quanto mi ero immaginato, le strade sono larghissime, i ponti immensi, i grattacieli ti sovrastano come freddi giganti, il traffico è vorticoso, insomma il primo impatto ti toglie il fiato, ma New York è affascinante ed eccitante, proprio come avevano detto.

Arriviamo a Manhattan all’Hotel Edison, nella 47^ strada, vicino a Broadway e a Times Square, anch’esso, naturalmente, “sproporzionato”; stanze molto belle e grandi; io, poi, come capo della spedizione, ho avuto una suite con tre stanze, mi sembra di essere Al Capone.

Alla sera festa di benvenuto officiata da Maria Teresa Ruta col piccolo Gian Amedeo e Amedeo Goria.

28 ottobre. Allenamento alle sette in Central Park, poi si parte per il Great New York Marathon Tour, un giro di quattro ore, che tocca i cinque distretti, Staten Island, Brooklin, Queens, Bronx e Manhattan, il percorso della maratona.

Al pomeriggio è bello girare per le vie di Manhattan e imparare a conoscere la città nella sua realtà umana, vedere le persone che vivono e lavorano come in tutte le altre città.

Passo davanti al Madison Square Garden e vedo campeggiare a lettere cubitali Shirley Mac Laine e Frank Sinatra: siamo proprio in America !

Faccio una visita a St. Patrick, la cattedrale degli Italiani, molto bella e, uscendo, passo dal Rockefeller Center, un posto meraviglioso; mia cognata si è procurata i biglietti per “Cats” e così la sera noi quattro andiamo a teatro a Broadway, un’esperienza indimenticabile.

29 ottobre. Si parte per Buffalo, Canada, per una fuggevole visita alle Cascate del Niagara.

La giornata è fredda e umida, ma lo spettacolo è da togliere il fiato mentre pranziamo nella Torre Panoramica.

30 ottobre. E’ in programma la mini crociera nella Baia di New York e visita alla Statua della Libertà, il simbolo degli States.

Dalla sua sommità si gode un panorama indescrivibile, come se tutta la Grande Mela ti fosse offerta su un piatto d’argento.

Mi colpisce soprattutto il World Trade Center con le Twin Towers, i grattacieli più maestosi di tutta la città.

31 ottobre. Alle otto partiamo a piedi per il Palazzo di Vetro per partecipare all’International Breakfast Run, sei chilometri di corsa leggera fino all’arrivo in Central Park, dove troviamo già tutto pronto per il grande spettacolo del giorno dopo.

Alla sera tradizionale Pasta Party, e poi si va al Greenwich Village per la parata di Halloween sull’Avenue of the Americas.

Un’ora di maschere più o meno terrificanti, con le quali, noi umani, cerchiamo di esorcizzare le nostre paure.

1 novembre. E’ il grande giorno. Alle 7,30 il bus riservato ci carica davanti all’Empire State Building e, attraverso il Lincoln Tunnel, passiamo sull’altra riva dell’Hudson. Attraversiamo Hoboken e Jersey City e arriviamo a Richmond, dove veniamo scaricati sui prati di Staten Island, davanti al ponte di Verrazzano alle 8,30; mancano due ore alla partenza. Fa freddo, ma togliamo la tuta e consegniamo la borsa col vestiario al bus.

Io ho la maglia bianca e verde coi pantaloncini rossi, Guido, mio fratello, è in gialloblù, i colori della sua squadra, il Borgonuovo. Sopra mettiamo il sacco della spazzatura e ci allineiamo in attesa dello sparo.

Noi tapascioni siamo sul ponte di sopra spazzato da un vento gelido, i big nella parte di sotto, le donne dall’altro lato.

Tutti scattiamo al colpo di cannone alle 10,30. Entriamo subito a Brooklyn tra due muri di folla festante, “O sole mio” e “Funiculì funiculà” ci danno il saluto della comunità italiana. Ora ci accoglie “Oh when the Saints”, la Jazz band nera stile New Orleans. Al Pulaski bridge, mezza maratona, sentiamo il forte e struggente suono delle cornamuse , sono gli Scozzesi col kilt. Più avanti una sfrenata rumba ci avverte che stiamo passando dai Sudamericani. Attraversiamo Queensborough bridge e attraverso la First Avenue entriamo nel Bronx, poi tocchiamo Harlem e, finalmente, ecco la Fifth Avenue.

“Guido, non ce la faccio più, vai pure”.

“Neanche per sogno, dobbiamo finire assieme, stringi i denti, manca poco.”

Eccolo il mio fratellone, come sempre pronto ad aiutarmi, come un bravo fratello maggiore.

Imbocchiamo la leggera salita che porta al traguardo di Central Park e, finalmente, ecco la marea di folla, che ci accoglie con un boato.

Ho molto freddo, ma sono contento, 3h52’07”.

Comincio a battere i denti. Al centesimo bus troviamo la nostra roba, ma ormai sto malissimo. Mio fratello prende le borse e mi trascina all’ospedale da campo.

Un’infermiera portoricana mi adagia sulla brandina cercando di stabilire un contatto in spagnolo, mentre mi mette una coperta.

Arriva Guido con una cioccolata calda e comincio a riprendermi. Dopo un po’ mi aiuta a vestirmi e torniamo in albergo, a piedi, perché nessun taxi si ferma.

Mi porta in camera mia , mi butto sul letto e mi addormento profondamente

2 novembre. Alle 14 si parte per Newark e alle 16 volo di ritorno.

“Va meglio Jano?”

“Sì Guido, va tutto bene, comunque ne valeva la pena, dove andiamo l’anno prossimo ?”

“Sarebbe bello andare a Mosca ad agosto”

“Ottima idea, prepara tutto” …

Non andammo mai a Mosca: un cancro al cervello in cinque mesi distrusse mio fratello, come nel 2001 il cancro dell’odio fanatico ha sbriciolato le Twin Towers e con esse migliaia di persone, con i loro sogni, le loro speranze, le loro ambizioni… Castelli di carte. E allora comprendi che la vita ha un senso solo se vivi ogni giorno come se fosse l’ultima occasione: non neghi un sorriso a chi ti saluta, un grazie a chi ti fa una cortesia, una carezza e un’ora del tuo tempo “prezioso” a tuo figlio, cogli un fiore e lo porgi con un sorriso alla compagna che ha deciso di dividere con te gioie e dolori.

E se la neve imbianca le tue cime lasci che dal cuore sgorghi una sommessa preghiera.