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Cova Alberto collage foto Roberto Mandelli

Chissà il perché a tutti i bambini, o a quasi tutti, la minestra proprio non piace. E chissà perché quel 9 agosto 1983, col caldo che c’era, mia madre decise di fare la minestra per cena. Forse perché a mio padre piaceva, e piace, tantissimo. Niente vacanze, le tasche non le permettevano, trascorrevo i miei giorni in piscina, l’avevano inaugurata tre mesi prima, passavo le giornate come tutti i bambini di otto anni ed immaginavo di emulare le gesta degli azzurri di Bearzot padroni del mondo dodici mesi prima.  

In quell’agosto del 1983, ad Helsinki, c’erano i mondiali di atletica, quel giorno c’era la finale dei 10.000 mt. Il via alle 19.30, io e mio padre eravamo sul divano, mia madre in cucina a preparare la minestra di cui iniziavo a sentire l’odorino. Ma non ci facevo caso, Paolo Rosi stava raccontando ciò che vedevamo in tv, a dir la verità non un grande spettacolo, gara tattica e gruppo compatto. Uno dei pochi atleti staccati da quel groppone era Alberto Salazar, ora allenatore di Mo Farah. 

Dopo circa metà gara un grido dalla cucina: “C’è pronto!!!”. Proprio adesso, proprio ora che la gara dovrebbe entrare nel vivo. Tra un’imprecazione e l’altra ci sediamo a tavola, la minestra fa il fumo, scotta e non mi piace. Un piccolo Phonola in bianconero, rigorosamente senza telecomando, passa le immagini dei 10.000. Ultimi 800 metri, il mio eroe dell’atletica di quegli anni è lì… Ultimi 500 metri, il momento è difficile sia a Helsinki che a casa. Ultimi 150 metri, forse si può… sì, ci siamo… è medaglia… di più ancora… è oro! Alberto Cova è campione del mondo! E allora in piedi sulla sedia a gridare a squarciagola il nome di Cova, talmente forte che l’arzilla 85enne che abitava nell’appartamento di sopra si sporge dal balcone e dice. “Cusa sucet?”. Cosa vuoi che succeda, mangio la minestra ed è la più buona del mondo!

 

A distanza di 32 anni ricordo ancora tutto di quell’incredibile serata come fosse ieri. A mio avviso è stata una delle imprese sportive più prestigiose ed indimenticabili ottenute da un italiano.

Ho la fortuna di riuscire a parlare con Alberto Cova e questo è il sunto della nostra chiacchierata.

 

Qual è stata la tua gara capolavoro? 

Le tre medaglie d’oro che ho vinto sono tutte importanti ovviamente, ma quella dei Mondiali di Helsinki 1983 la ritengo la gara migliore della mia carriera sotto tutti i punti di vista. Ritenevano che fossi il favorito perché l’anno prima ad Atene avevo vinto gli Europei in volata. Avevo corso la batteria in 27’41”, tanto o poco eravamo tutti un po’ stanchi. Il ritmo in finale già da subito non era elevatissimo, io mi aspettavo che ai 300 metri partisse il tedesco Werner Schildhauer, come aveva fatto proprio ad Atene, invece partì ai meno 600. Rimasi sorpreso da questa sua mossa, feci fatica a rimanere attaccato ai miei avversari. Fortunatamente al suo inseguimento si buttò l’altro tedesco, Kunze. Poi in fila il finlandese Vainio, il tanzaniano Shahanga ed io. Seppur essendo tanti 30 metri da recuperare, questa sorta di trenino fece in modo che rimanessi attaccato alla testa della gara. All’ultima curva iniziai a pensare che una medaglia la potessi prendere. A fine curva, andai all’esterno, mi accorsi che andavo più forte degli altri: affiancai Shahanga e poi sorpassai Vainio. Andavo più forte di Kunze e Schildhauer, pensai all’argento e alla fine vinsi la gara.

Ogni volta che scendevo in pista sapevo come si sarebbero mossi i miei avversari. Il mio allenatore, Giorgio Rondelli, era un maniaco: si guardava e riguardava le videocassette con le gare e si annotava le mosse degli atleti. Poi mi spiegava tutto per bene ed io assimilavo ciò che mi diceva. 

 

Che rapporti avevi con i tuoi avversari? Soprattutto con Vainio e Schildhauer che probabilmente la sera prima non dormivano al pensiero di affrontarti…

Mi piace pensare che non dormissero per quel motivo, così magari erano già stanchi prima di partire. Perché le gare si vincono anche e soprattutto con la testa. Al di là di questa cosa, con i miei avversari ho sempre avuto un rapporto normale. Nelle competizioni che contavano un semplice saluto ed ognuno andava per la propria strada. Ai meeting, dove magari c’è meno tensione, qualche parola in più la scambiavamo. Pensa che una volta finita la mia carriera non li ho più incontrati ad eccezione di Kunze: anni fa Sandro Giovannelli, patron del Meeting di Rieti, volle fare una rimpatriata per quegli atleti che avevano dato lustro al suo evento. E Hansjorg Kunze lo rividi proprio in quell’occasione.

 

Qual è stato il momento peggiore della tua carriera?

Senz’altro la parentesi più brutta è stata la mancata partecipazione ai Mondiali di Roma del 1987 a causa di un infortunio. Ci tenevo a davvero tanto, un po’ per dimostrare che potevo ancora correre forte ma soprattutto perché sarebbe stato un evento organizzato in casa. L’anno prima vinsi l’argento agli Europei di Stoccarda dietro a Stefano Mei, quindi potevo e volevo dimostrare ancora qualcosa. Purtroppo non riuscii a parteciparvi. Poi, pian piano, ritornai tanto da correre i 10.000 in 27’52”, tempo che mi permise nel 1988 di partecipare alle Olimpiadi di Seoul che non andarono bene. Decisi allora di ritirarmi.

Quell’infortunio, un problema ad un tendine che non trasmette i giusti impulsi al piede sinistro, l’ho ancora oggi. Solo che adesso, quando corro, non mi dà fastidio più di tanto visto che vado a ritmi blandi, ma allora era veramente doloroso.

 

Cosa fa ora Cova nella vita di tutti i giorni?

Faccio formazione manageriale. Tengo dei corsi di coaching aziendale e porto la mia esperienza sportiva nella quotidianità formando i futuri manager aziendali. Lavoro molto con la metafora sportiva legata ai miei successi. 

 

Nel 1982 su La Repubblica, a firma di Oliviero Beha, comparve un articolo dove tu dichiarasti di aver praticato l’emotrasfusione. Per quanto tempo è durata questa pratica?

Beh, non è detto che se l’ha scritto Beha allora sia vero e che ciò corrisponda a verità. Comunque su questa cosa non ho nulla da dire.

 

Che differenza c’è tra la tua atletica e quella di oggi?

A livello giovanile praticamente nessuno se non le abitudini dei giovani stessi. Una volta ci si buttava a capofitto nell’attività, ora ci sono molte più distrazioni. Devi essere seguito da riferimenti importanti, tutto ciò che hai attorno dev’essere professionale. L’aspetto economico è importante. Io grazie alla Pro Patria portavo a casa uno stipendio lavorando quattro ore al giorno per poi impegnarmi negli allenamenti. Un atleta dev’essere professionista in tutto, è facile seguire gli allenamenti che vengono proposto, ma essere professionisti vuol dire esserlo anche fuori dai campi di allenamento. E’ qui che ci dev’essere un controllo, delle famiglia, dei tecnici e da tutti quelli ti circondano. 

Oggi guadagnare è una cosa abbastanza normale. Si entra in un corpo militare e ci si sente appagati. Con questo non voglio dire che i gruppi sportivi militari non vadano bene, anzi come ripeto l’aspetto economico è importante. Bisogna riuscire a capire perché un atleta scegli di fare atletica. E per capire questo serve tutto un sistema di gente professionale o professionista che ruota intorno all’atleta stesso. Se si capisce che un atleta ha del talento bisogna fargli capire che utilizzare del suo tempo per coltivarlo nel miglior modo possibile.

Io quando ero bambino, prima ancora da fare educazione fisica a scuola, andavo in bicicletta nei boschi, mi muovevo, correvo, facevo attività fisica autonoma. Ora questa cosa non esiste più, i ragazzi iniziano a fare attività fisica a scuola, non prima.

A me nessuno ha mai detto “sei un talento”. Mai! L’ho sentito dire a molti altri ragazzi che poi si sono persi per strada. 

 

Stai pensando ad una tua candidatura alla presidenza della Fidal?

No, assolutamente no! Non ho nessuna intenzione di diventare il presidente della federazione. Sono stato per quattro anni in consiglio federale sotto la presidenza di Arese. Ho portato alcune questioni ed idee, ma non sono stato ascoltato. Mi sono stancato di stare in un mondo che non voleva cambiare, che non voleva comprendere. 

Bisogna avere coraggio, ad esempio, di cambiare le voci di bilancio. Se per anni vengono destinati fondi per cose consolidate, non è detto che sia la cosa giusta. Bisognerebbe spostare questi fondi a cose nuove. Non è detto che i risultati ci siano subito, ma magari arriveranno a medio-lungo termine.

Non sono le medaglie che cambiano le cose, anche se il successo si misura da quelle, serve il cambio di mentalità, bisogna cambiare i comportamenti. E bisogna che tutti vadano nello stesso verso. 

Se la Federazione attuale mi vuole contattare per un confronto io ci sono, di certo non mi sottraggo. 

 

Finiamo la chiacchierata con il ricordo di Paolo Rosi, il compianto telecronista che raccontò così le ultime concitate fasi di Helsinki 1983:

“Ultimi 200 metri, Schildhauer, Schildhauer, Kunze, Vainio, Shahanga, Cova, Cova, Cova, Cova.

Cova cerca di piazzare il suo spunto.

Ultimi 100 metri, ultimi 100 metri.

Esce Shahanga, esce anche Cova.

Esce Cova, spalla a spalla.

Cova, Cova, Cova, Covaaa, Covaaaaa.

Magnifico, ha vinto la medaglia d’oro con un finale straordinario.

28 01 e 4, ma che c’importa del tempo! Cova ha trionfato!”

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