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Così, anche questa bella corsa sulle prime colline bolognesi (attraversate, a suo tempo, pure da una classica poi morta per estinzione, la Bologna-Zocca), ha compiuto 40 anni: su percorsi via via rimodellati, con un aumento progressivo della lunghezza (oggi di circa 14,600 km), del dislivello (ormai vicino ai 600 metri) e dei tratti di sentiero sterrato, talora anche scalinato, che nei primi anni mancavano del tutto.
Il passo successivo sarebbe quello di indire un trail, impresa tentata nel 2014 su una distanza di 20 km e un dislivello di quasi mille metri, ma non più riproposta.
In ogni caso, le foto di Teida Seghedoni, al di là di quelle che costituiscono le più comuni immagini podistiche (talora al limite dell’esibizionismo, laddove ci sarebbe poco da esibire) danno un’idea dei panorami e del fascino che anno dopo anno attirano tanti appassionati dalle province vicine, seppure per una gara non competitiva e con partenza quasi libera (ancorché non ufficializzata, come ipocritamente succede nel Coordinamento di Bologna che forse numericamente è il più forte d’Italia). C’è anche chi arriva in bicicletta per correre a piedi, come pure c’è chi arriva in auto e poi in bicicletta marca a uomo la propria fidanzata ufficiale, che ha ancora la forza per correre (ma dubitiamo che nei tratti di sentiero lui si carichi la bici in spalla).
Ormai comincia a far caldo, anche intorno ai 300 metri dove si arriva in tre punti della gara, e l’occasione è buona per sfoggiare le prime prove-costume (sebbene in qualche caso il burqa risulterebbe più seducente). Ma, folclore a parte, c’è il tempo per qualcuno di fermarsi nella basilica e nel convento in cima al borgo (anche qui, le foto di Teida sono eloquenti). Santificata la festa, altri speravano nei ristori a base di Pignoletto (termine vinicolo che è stato addirittura promosso a nome di paese), ma questi restano confinati nei ricordi, malgrado l’attraversamento di due agriturismi (sarà la crisi).
I ricordi si infittiscono all’arrivo, dove la gloria podistica Vito Melito (cinque volte vincitore del Passatore) offre le sue scarpe a buonissimo mercato: io, che comprai da lui per 30 euro delle Mizuno con le quali poi ho corso quattro o cinque maratone , sto in tentazione e mando un whatsapp con foto al nostro principe della critica scarpiera, Maurizio Lorenzini (che per oggi mi sta calzando, direi con buone risultanze).
Pronta l’ammonizione: “Le M* M* non sono riuscite granché bene e 80 euro è un prezzo che si trova in giro. Le M* K* (scarpa migliore ) costano 79 euro da K**. Intravedo delle B*, mi sembrano quelle di prima generazione, ormai te le tirano dietro un po’ ovunque. Intendiamoci, può capitare l'affare ma bisogna porre molta attenzione”.
Con questa sentenza, mi limito a comprare frutta e verdura nello stesso piazzale del traguardo: tutto per 2 euro al chilo, ciliegie escluse che stanno sui 4-5 euro. Invece, i due euro di iscrizione mi fruttano non un paio di calze (come appariva guardando distrattamente la confezione), ma di guanti da lavoro, evidentemente resti di magazzino che ogni tanto compaiono come premio-partita. Sulle bancarelle c’è anche il Pignoletto, ma a 5 euro la bottiglia, che francamente sembrano molti a noi podisti bassopadani, sempre pronti a piangere miseria salvo affollare le corse notturne e albeggianti da 15 euro.