Treviso, Piave e Prosecco, grandi assenti
Ormai di Treviso c’è solo il nome, e anche il numero degli arrivati è lontano parente dei tremila o passa che affollavano le partenze di Vittorio Veneto: l’anno scorso erano stati 1180, quest’anno solo 800, più gli 884 della mezza maratona (nel 2016 erano 973). Sono periodi di vacche magre, anche grazie all’avidità insipiente della Fidal; eppure questa era una maratona Aims, concepita cioè per attirare podisti da tutto il mondo; ma io ho percepito soprattutto i soliti nèèri (come dicono qui) e le solite straripanti croate a caccia di poche centinaia di euro in gare dal basso livello tecnico. Per il resto, la stragrande maggioranza dei corridori era locale.
Puri nomi sono rimasti anche il Piave (che compariva soprattutto nei nomi dei paesi attraversati, ma che non abbiamo mai visto) e… il Prosecco, citato nel sito della maratona e nelle tante aziende costeggiate, ma non rappresentato nel pacco gara e (a quanto ho visto) nemmeno nel ristoro finale (dove però si faceva apprezzare un bel piatto di minestrone con fagioli e radicchio, e per i coraggiosi c’era anche la grappa).
Percorso che (mi permetto di dissentire rispetto al comunicato ufficiale) non mi pare molto apprezzato dai partecipanti: è un susseguirsi di paesoni, col loro campanile aguzzo, di strade fuori mano, di fabbrichette, senza particolari bellezze architettoniche, a parte forse la torre di Rai e quella bellissima contrada di cui mi sfugge il nome, dalle parti di Cimadolmo o Tezze, dove una bella strada selciata è affiancata da una sequenza di casette a un piano.
Naturalmente Conegliano è bellissima, ma le parti più affascinanti (dal Duomo in su) sono troppo in alto e le abbiamo schivate, sia pure non riuscendo a evitare i 24 metri di salita degli ultimi 6 km, ripida soprattutto intorno al 40-41 (è una maratona esattamente al contrario di quella di Reggio, dove vai su nella prima metà e poi scendi: qui, il difficile viene nel finale).
Dunque, sinceramente e parlando con rispetto (anche se contemplare l’orizzonte punteggiato di campanili, e sentire lo squillare allegro della torre di Mareno, o leggere a Rai lo striscione del “Ziro dea Tore” mi commuove), non condivido l’enfasi descrittiva con cui un mensile dal nome e dall’impostazione americana si era fatto carico (ovviamente, dietro compenso) di magnificare questo tracciato cosiddetto 1.4. In realtà mi è sembrata una maratona come ne correvamo negli anni 80 / primi 90, anche da queste parti (Mareno stessa, la “Trevisando” di Cappella Maggiore, Vedelago ecc.): attraverso campagne e paesini, lungo canali e allevamenti zootecnici e vendita di “anatre germanate” e di asparagi bianchi, dove ad ogni villaggetto ci sono gruppi di amici che salutano il compaesano (“Forza Paolino, tra pochi km sei a casa!”), i bambini e le mammine che applaudono, i ristori “privati” che offrono salame a fette e magari anca un’ombra de vin.
Tutto questo è poesia, ma si sposa poco col business che negli anni antichi colonizzò la Treviso Marathon dei vari Zoppas e Zaia: è rimasto lo speaker Mutton, che un tempo spopolava per mezza Italia ma adesso ha dovuto ridimensionarsi pure lui. E sono rimasto io, alla mia quinta o sesta Treviso, da tutte le partenze possibili, e in memoria del passaggio solenne dal Ponte della Priula con squilli di fanfare e distribuzione dei berretti bianco-rosso-verdi (quello rosso l’ho usato anche oggi, fin che è piovuto).
Già, la cosiddetta “pioggia battente”, su cui insiste tanto il comunicato ufficiale per giustificare il tempo mediocre del vincitore: in realtà, la pioggia ha “battuto” solo alla partenza, per attenuarsi quasi subito e smettere, salvo spruzzatine occasionali, dal km 15 in poi, quando addirittura è spuntato il sole, con una temperatura rilevata di 9 gradi e vento a 10 km/h da nordest. Secondo me, era il clima ideale per fare il tempo; ma se uno non va, non va, nemmeno assoldando una lepre di lusso (come è apparso da qualche foto), cioè il Bamoussa da Alpago che, iscritto alla 21, in realtà fa da pacer alquanto fuori norma all’aspirante primatista nella circa metà del percorso in comune. Trucchetti che inducono noi podisti individuali da quattro soldi, costretti a portarsi dietro l’impermeabile o i guanti o i manicotti con cui siamo partiti, perché nessun assistente ce li ritira e buttarli ci secca, a tifare contro.
Buona parte del resto, devo dire, mi è piaciuta, a cominciare dalle ottime convenzioni con le strutture alberghiere: ho contattato un albergo a 4 stelle, 3 km dalla partenza, che ufficialmente per la doppia quotava 89 euro, ma ridotti a 75 secondo convenzione, e con rilascio della camera dopo la doccia (nel mio caso, verso le 15,30): e vi garantisco che questa doccia è stata una delle più voluttuose della mia vita. Sebbene, le limitazioni di traffico nella mattina di domenica avessero impedito a me e tanti altri di sfruttare i due ampi parcheggi gratuiti indicati dall’organizzazione (ma cui si accedeva per una strada assurdamente chiusa a chi veniva da sud, fin dalle 8 di mattina, e ancora per buona parte del pomeriggio), costringendoci a ripiegare nella zona impianti sportivi, proprio quella cioè dove stavano le docce ufficiali, a circa un km dalla partenza: dunque, avrei potuto fare la doccia anche lì dove avevo lasciato l’auto (altri che l’hanno lasciata a casaccio per le strade si sono poi trovati la multa).
Comoda la collocazione dell’Expo (un po’ povera, se penso alla magnificenza delle Expo trevigiane anni 2005 e seguenti) e dei servizi nei locali della stazione corriere, adiacenti alla stazione dei treni dove stava l’arrivo (bè, forse si poteva trovare un posto più ‘artistico’, magari in piazza Cima o davanti al Duomo o al teatro; ma solo l’ultimo dei tanti archi gonfiabili disseminati nell’ultimo km era quello ‘buono’).
Molto nutrito il numero dei pacemaker allestiti da Julia Jones, tre ogni quarto d’ora fino alle 5 ore, poi una “scopa” alle 6 ore; e, a differenza di altre maratone che ho corso da poco, dove molti pacer non avevano clienti (dunque si limitavano a scroccare il pettorale e l’alloggio, e magari la compagnia femminile: specialità tipica di certi modenesi miei conoscenti), qui c’era sempre qualcuno da aiutare: i pacer delle 4 ore, che mi hanno passato verso la mezza, con Igor Cassina nei paraggi, avevano 7 o 8 seguaci; quelli delle 4.15, che mi hanno preso al 41, ne avevano ancora due.
Uno che non aveva pacer, ma sempre una fila di accompagnatori in attesa di affiancarlo sul tapis roulant, era il grande Daniele Cesconetto (2 Utmb e una Spartathlon, per dire), che in una palestra al confine tra Conegliano e S. Vendemiano si è esibito nelle sue 60 maratone consecutive (finisce mercoledì) a scopo di raccogliere fondi per i bambini ammalati di tumore e curati nel vicino centro oncologico di Aviano: sabato aveva già superato i 25 mila euro, e a parte il Guinness dei primati (che mi lascia piuttosto scettico, specie da quando c’è anche chi fa la maratona palleggiando con due palle da basket), è una iniziativa da elogiare.
Purtroppo il suo turno di domenica 5 doveva cadere di mattino perché al pomeriggio la palestra è chiusa, e dunque ha mancato la “doppietta”: maratona su strada a Conegliano e poi su tapis. Magari sarà per un altro anno, e mi raccomando senza palle da basket o altre palle di qualsiasi genere.
Rivedremo Conegliano? Maratona o no, la salita al Castello è uno spettacolo che merita da solo la visita, e insieme con la mostra della pittura veneta del 500 (sconto per i podisti!) non me la sono persa.