E così, alla fine, è successo. Il peggior incubo che possa turbare un maratoneta, o un podista, ovunque si trovi a correre nel mondo, si è avverato. Più di un improvviso cedimento delle gambe, di un insidioso infortunio, persino più di un grave incidente sul percorso di gara o di allenamento, la possibilità di finire vittima di un vile attentato come quello di Boston può gettare nel panico e nello sconforto anche il podista più solido dal punto di vista psicologico ed emotivo. Di fronte ad una tale evenienza, infatti, non abbiamo difese: in nessun modo la nostra ‘buona condotta' può proteggerci da un simile pericolo, che sfugge completamente al nostro controllo. L’intento di colui o coloro che hanno piazzato le bombe è dunque chiaro: non si è voluto solo commettere un crimine, il più abominevole dei crimini (in quanto colpisce persone del tutto inermi in un contesto di festa e amicizia), ma anche un gesto profondamente, e doppiamente, simbolico, e per questo ancor più ‘terrificante’. Colpendo Boston si è voluto ‘far male’ alla maratona più antica, e forse più prestigiosa, di tutte, che nel 2013 era giunta alla 117ª edizione; inoltre si è voluto, ancora una volta, colpire al cuore l’America. Il messaggio, l’agghiacciante monito, ci fa venire un groppo in gola e punta dritto alla nostra mente e al nostro ventre: “Attenti voi, possiamo colpire ovunque!”
E’ dall’attentato di New York del Settembre 2001 (e poi da quelli di Londra del Luglio 2005), che presagi funesti di tanto in tanto lambivano i miei pensieri. Allora ero un podista novello, a dispetto dell’età non proprio giovane, e le mie preoccupazioni erano ben altre: stavo ancora imparando l’abc della corsa ed avrei affrontato la mia prima maratona solo tre anni più tardi. Eppure, con le terribili immagini delle Torri Gemelle negli occhi, talora mi capitava di pensare: “…E se volessero davvero massimizzare il danno, quale occasione migliore di un grande evento sportivo, quando migliaia di persone si accalcano, come in uno stadio o alla partenza di una grande maratona?”Il terrorismo ha il nome in testa, e qualunque sia il volto che si cela dietro quella mano vigliacca, lo scopo è uno solo: uccidere innocenti, sì, ma soprattutto gettare il mondo intero nell’angoscia, creare una psicosi di massa che destabilizzi la società rendendoci tutti più vulnerabili e aggressivi gli uni verso gli altri. Alla fine, dicevo, purtroppo è accaduto davvero, ed è singolare come gli ordigni, invece che alla partenza, siano stati collocati al traguardo, travolgendo tutti indistintamente: gli atleti, sorridenti al termine della loro fatica, e gli spettatori, accorsi per sostenere e festeggiare gli amici ed i parenti in gara.
Potrebbe sembrare che gli autori di questo ignobile gesto siano riusciti nel loro intento: sicuramente ora si è avuto un ‘precedente’, la psicosi di possibili attentati potrà davvero aleggiare in ogni maratona o manifestazione sportiva in qualsivoglia parte del pianeta. Soprattutto, d’ora in avanti non sarà facile per organizzatori e responsabili dell'ordine pubblico gestire manifestazioni simili: com’è possibile garantire la sicurezza lungo 42 km di strade gremite di podisti e spettatori, magari attraverso una metropoli nella sua interezza? Potremmo dunque credere che abbiano vinto loro, che abbiano inferto un colpo mortale ad eventi di massa come la maratona e, conseguentemente, a tutta quanta la comunità civile.
Ma non è così! Credo fermamente che non debba essere così per forza.
I terroristi non riusciranno nel loro folle disegno, perché la risposta migliore, l’unica possibile e al contempo la più ‘potente’ che si possa immaginare, la possiamo e la dobbiamo dare proprio noi maratoneti, noi podisti di tutte le nazioni, razze o religioni, noi ‘ideali’ compagni di coloro che hanno terminato la loro corsa per sempre, uccisi da una bomba sotto uno striscione d’arrivo. E tale risposta consiste semplicemente nel continuare a correre, dritti per la nostra strada, in ogni angolo della Terra, senza dimenticare quel che è successo, ma nemmeno facendoci condizionare nei nostri comportamenti e lasciandoci vincere dallo sgomento. Correndo anche per migliorarsi e magari vincere, ma comunque uniti anche quando separati da chilometri lungo lo stesso percorso, proprio ‘come una cosa sola’, senza mai arrabbiarci fra noi, per questo o quel futile motivo. Sorridendo e sorreggendoci a vicenda nel momento del bisogno, e dando il ‘cinque’ al bimbo che, ancor più emozionato di noi, ci incita tendendoci la mano da bordo strada.
E Domenica prossima, in qualsiasi luogo ognuno di noi si rechi per compiere la sua piccola impresa, in gara o allenamento, correremo tutti idealmente col lutto al braccio, tributando onore e dedicando un pensiero alle vittime e ai feriti di Boston, sicuri di noi stessi e della nostra forza come non mai.
Non ci fermeranno, e non fermeranno il mondo, se noi non vogliamo che accada.
Buone maratone, e buone corse a tutti.