“Questi tedeschi”, diceva Peppone, “per la tecnica bisogna lasciarli stare, non c’è nessuno che li valga”. Il discorso si può applicare anche alle maratone: nella mia personale graduatoria, Berlino è la prima al mondo tra le maratone urbane; Interlaken, Davos e Zermatt primeggiano tra le maratone di montagna.
Chissà - mi chiedevo, risalendo venerdì la Val Venosta (Vinschgau) dove ridicoli nomi italiani si sono sovrapposti ai legittimi toponimi tedeschi (Silandro per Schlanders, Glorenza per Glurns, Covelano per Göflan, ecc.) - se questi sudtirolesi hanno conservato la mentalità tedesca anche nell’organizzare. (Purtroppo, il primo impatto con questa mentalità tedesca mi ha colto nell’albergo di Solda, dove alle 20,15 non servivano più la cena – ma questo è un altro discorso: st’altra volta andrò a Trafoi nell’albergo di Gustav Thoeni, che mi dicono abbia una cura speciale e personale per i clienti).
Ma quanto a questa maratona all’esordio, direi che quasi tutto sia andato ‘alla tedesca’, nel senso migliore del termine oltre che, s’intende, nel rispetto del bilinguismo fin dallo speakeraggio: nelle premiazioni finali, a un presentatore germanofono specialmente riservato alle signore (che infatti, direi, al 95% erano di madrelingua tedesca) corrispondeva un presentatore la cui cadenza romagnola-bolognese deliziava i presenti. Mentre, nel precisissimo briefing della vigilia, a tradurre in italiano provvedeva lo stesso Gerald Burger: non esattamente un principiante, se da 18 anni ha portato al successo il giro del Lago di Resia (Reschensee), in programma tra un mese.
Centro maratona ubicato presso l’imponente area sportiva, tanto più grandiosa se pensiamo che Prato conta 3700 abitanti (magari, si potrebbe segnalarla meglio nei cartelli stradali, visto che è un km a valle del paese); pasta party compreso nel costo d’iscrizione (crescente, dai 70 ai 130 euro col passare del tempo, per qualsiasi distanza), briefing accurato con proiezione di diapositive chiarissime oltre che suggestive. Un po’ più complicato trovare, la mattina della gara, i camioncini dove depositare la propria sacca dei ricambi: in pratica, a mezza strada fra la partenza nel centro del paese e l’area sportiva della sera prima; coi blocchi del traffico del sabato, e le segnalazioni orali contrastanti, c’è un po’ di affanno (ma per fortuna, il tempo limite di consegna della sacca sarà un po’ allungato, senza far ricorso alla rigidità teutonica).
I circa 400 maratoneti compiono un primo ricciolo di 16 km, in parte su strade bianche e in parte su una pista ciclabile (invasa da famigliole con bimbi piccolissimi che pedalano in ordine e compostezza), raggiungendo prima Montechiaro (in realtà, Lichtenberg, il Monte della luce) poi il bel borgo di Glorenza, pieno di folla festante che ci applaude; e l’incitamento del pubblico ci sarà anche negli attraversamenti degli altri paesi o piccoli agglomerati, cosa sorprendente rispetto al silenzio o all’indifferenza che accompagna noi del centro-coda gruppo, anche in corse italiche ben più frequentate.
Si torna a Prato, da dove nel frattempo sono partiti gli altri circa 400 iscritti al percorso dei 26 km, che affrontano direttamente le rampe che porteranno allo Stelvio, sul versante sinistro della valle, da subito a un’altezza di 2-300 metri superiore a quella della strada statale: il che offre tra i km 17 e 21 alcuni degli scorci più favolosi su tutta la valle, fino a Solda e all’Ortles, oltre che sulla paurosa parete dello Stelvio che andremo ad affrontare.
Bello, sì, ma dal punto di vista ‘tecnico’, è fonte di discussioni che raccolgo tra i partecipanti: è giusto dare il nome di “maratona”, piuttosto che di Sky Marathon, a una gara dove una parte si svolge addirittura su “sentiero alpino”? D’accordo che, a parte 2-3 km intorno al trentesimo classificabili come EE, il resto sono sentieri in mezzo a boschi, su fondo in prevalenza terroso, e comode carraie lisce, dove non fanno difficoltà le normali scarpe da asfalto; anche la Jungfrau si continua a chiamare maratona sia pur comprendendo un paio di km sulla morena glaciale.
Però, alcuni colleghi rilevavano che la corsa è molto più dura di quanto si aspettassero: ho in mente Massimo da Cesena, 28 anni e 8 maratone all’attivo, con cui ho camminato su qualcuno dei 25 mitici tornanti sotto il passo; o Giuseppe da S. Giovanni in Persiceto, con cui mi accomuna la venerazione per i maestri di podismo e di vita come l’ingegner Morisi, e il sarcasmo nei confronti di alcuni pseudo-podisti di oggi la cui massima attività sportiva è di raccontarsi sui blog.
Questo del percorso (a proposito: sicuramente più lungo, dai 200 ai 500 metri secondo i vari Gps, e con un dislivello maggiore dei 2350 metri dichiarati: forse oltre 2500 metri, causa l’esser saliti fino ai 2380 slm al km 32,8 per poi scendere ai 2130 dell’ingresso al tornante 25) genera problemi in quello che forse è l’unico punto dolente dell’organizzazione, il servizio pacemaker. Premetto che io non ho mai visto pacer nelle gare di montagna, mentre qui ce n’erano in quantità (ricordo in particolare Anna da Rovereto, con cui ho corso intorno ai 6’ /km nei primi 15 km); ma di nessuno mi risulta che abbia rispettato i tempi previsti (io sono arrivato poco sotto le 7 ore, con un pacer delle 6 ore e una ragazza, pure pacer, il cui tempo finale non era indicato; un altro pacer l’ho passato mentre stava sconsolatamente appoggiato a un paracarro della statale, negli ultimi km).
Da un lato, mi hanno confessato di non aver mai provato il percorso (dunque ne sapevano come me); dall’altro, credo che in queste gare ci vorrebbe un pacer per ogni concorrente, dato che c’è il podista che corre in salita e quello che cammina, quello che corre sull’asfalto ma va di passo sullo sterrato, quello che nelle discese sassose va più piano che nelle salite, quello che si ferma a rifiatare due minuti in piedi e quello che si siede. Insomma, giudico la proposta di pacer generosa, ma sostanzialmente fallita.
Un ultimo punto su cui propongo sommessamente un miglioramento è nel rilevamento chip, previsto solo in partenza, al km 21 (cioè nel paese di Stelvio) e poi al 35 cioè verso l’immissione sull’asfalto della statale. Sarebbe occorso un controllo nei primi 16 km, perché qui siamo tutti onesti ma (Passatore docet) c’è anche il furbastro che trova inutile farsi un ricciolo che lo riporta alla partenza, e si avvia direttamente dal ‘secondo giro’. Non ho nessun sospetto, e anzi metterei la mano sul fuoco per il 99% dei colleghi; però capita di vedere che, dei due rilevamenti intermedi programmati, a qualcuno in classifica ne manca uno (magari per un semplice problema tecnico): ed essere “visto” solo una volta in 42 km mi pare poco.
Tutto il resto si svolge all’insegna della più perfetta tecnologia germanica (a proposito, al passaggio per Stelvio mi ha dato ritmo persino una musica ripescata dalle antiche marce che accompagnavano l’incedere della Wermacht per il Regno dei mille anni…): segnalazioni attente su un tracciato divenuto permanente (un po’ di scelta ci viene lasciata sulle varianti di sentiero nel tratto più alpino), grande presenza di volontari, che ho constatato di persona al km 30,5 quando, inciampato e rotolato per qualche metro tra i ginepri, non ho fatto in tempo a rimettermi in piedi che già due addetti in maglietta rossa erano lì a chiedermi come andava).
Ristori addirittura esagerati: 13 ne erano annunciati, a me sono sembrati addirittura di più, ed è sicuramente un record mondiale (perché è vero che New York bevi ogni miglio, ma non hai niente da mangiare salvo in due punti quel gel diarroico). Allo Stelvio c’era di tutto, e in testa alle preferenze metto le fette di Wassermelone (pardon, anguria) che sono state il mio alimento principale; poi acqua, cola, succhi di frutta, mele, arance, banane, frutta secca, due diversi tipi di torte, e sicuramente dimentico qualcosa. Primo ristoro (e spugnaggio) dopo 2,5 km, e aumento progressivo della cadenza col passare dei km: non è “normale”, gli ho detto, che ci sia un ristoro ai -5, uno ai -3, uno all’ultimo km (quello l’ho saltato)! Anormale, ma utile, specie se ci si riesce a regolare non ingozzandosi di liquidi.
Al Passo dopo l’arrivo, poi, trovo un’organizzazione industriale che devono aver preso dalla Volkswagen o dalla Siemens: è vero che devi fare dieci scalini, ma poi appare un meraviglioso attaccapanni numerato dove stanno appese le sacche in perfetto ordine, una tenda enorme dove hai ristoro comprensivo di birra a volontà (alkoholfrei, schade!) e puoi cominciare a rivestirti o scambiare le impressioni coi colleghi (Stefano da Bolzano, Leonardo da Pescara, l’immancabile sior Vitòrio da Manzano, mentre si fa aspettare Herr Hartmann Stampfer, forse impegnato a fotografare i panorami, ed è già andato via il grande Gianni Baldini da Viterbo). Per le docce, siamo suddivisi mediante voucher tra due hotel vicini, ma con tolleranza italica veniamo ammessi anche nell’hotel diverso dal nostro: doccia caldissima, bagni pulitissimi, ampia possibilità di rimettersi in borghese comodamente seduti, e forse pure di tuffarsi nell’attigua piscina.
Il rientro (perdurando la chiusura del Passo in discesa verso Prato fin verso le 17: solo per noi podisti e per il Giro d’Italia si chiude la statale!) è gestito mediante navette che sconfinano in Svizzera tramite l’Umbrail. Io riesco invece a scendere, poco più tardi, in auto per la SS 38, incontrando ancora una decina di colleghi atleti che, scaduto il tempo massimo, provano ugualmente a raggiungere il traguardo, senza più i ristori ma col fotografo che li aspetta al tornante 12.
Un po’ in ritardo la premiazione finale a Prato, appunto causa problemi di traffico, e anche per il soccorso a un atleta sentitosi male dopo la fine (provvede Gerald Burger di persona), ma arricchita dall’inattesa e mitica presenza di Gustav Thoeni: pensate che emozione, ricevere l’abbondante cassetta gastronomica del premio di categoria dalle mani di un coetaneo che quarant’anni fa era l’idolo mio e di tutti. Gli strappano la mezza promessa di partecipare alla maratona l’anno prossimo, e sono convinto che, col fisico integro che si ritrova, andrebbe a premio anche lui.