
Si riparte per la NYCM 2013. C’è poco da sorridere quando un mese prima della trasferta, terminata la mezza di Mantova mi assale una lombalgia che per ragioni di lavoro fisico e gravoso non può essere curata col riposo e se ne va avanti un mese secco. Quindi, mi accordo col fisico che lui lavora, non riposa e io in cambio non lo faccio correre per 30 giorni prima della maratona, a parte una 7 km e una 5 fatti solo per sciogliere le gambe. Il medico ed il chinesiologo, voltando il viso con sorriso beffardo mi dicono che non avrei corso la maratona entro un settimana (non gli avevo detto dove) e di approfittare dell’assicurazione che mi avrebbe rimborsato buona parte del viaggio. Scherziamo? Un altro anno di allenamenti e di lunghi monotoni da solo? No grazie, si ritorna alle tapasciate con i compagni della FIASP ai quali spesso fornisco i ristori col mio APE.
La sera che si arriva a New York si inizia a fare da guida turistica alla morosa che per la prima volta vede la città e così sino al sabato, sedendosi per strada a riposare la schiena e dimenticando i carboidrati per evitare la quotidiana aspirazione dei dollari dal portafoglio. Si perché il vento a New York che tira 23,59 ore su 24 pare addestrato a soffiarti i bigliettoni dal portafoglio appena lo apri.
Giorno della gara. Nella riunione tecnica ci consigliano di tenere nel taschino la tessera dell’hotel e 100 dollari nel caso ci si pianti per strada, ma se se sei stato Capitano dei Bersaglieri metti in tasca solo la tenacia e l’orgoglio di non mollare ad ogni costo.
Il pullman ufficiale parte alle 5,40 e per sicurezza mettiamo 4 sveglie, due sugli orologi, una sul telefono che non si sa mai se prende l’orario della tua scheda sim nazionale o quello locale, una dell’albergo, si perché oltre al fuso, stanotte c’era l’ora legale americana. Sarebbe stata una beffa non svegliarsi! Giù a fare colazione alle 4,30 e per sicurezza, da buon Vigile del Fuoco uso le scale d’emergenza per scongiurare il blocco dell’ascensore , filmato visto spesso nei miei interventi di soccorso e che non voglio accada mezzora prima della maratona. Per fortuna sono solo al sesto piano…
Tutti pronti e alle 5,32, in anticipo, siamo tutti a bordo al completo senza il solito quarto d’ora accademico italiano. La tensione per la sicurezza è palpabile quando superato il ponte di Verrazzano e arrivati al piazzale sento l’autista del pullman spazientito che esclama “open the door, close…the door…. dopo la quarta volta che ogni poliziotto incontrato gli diceva di fare il contrario del precedente.
Scendiamo alle 06.15, un freddo becco, ho fatto bene a coprirmi. Sembra di vivere un film di quelli catastrofici dove i profughi di una pestilenza o di una grossa calamità vengono avviati ai centri di raccolta sotto lo sguardo dei soldati. Troppo forte! Ogni pochi metri un poliziotto ti chiede di vedere il pettorale e cos’hai con te, il poveraccio accanto a me si è visto volare nel campo la bottiglia di integratore perché secondo il poliziotto ce n’era troppo, materassini, coperte, del resto ci era stato detto e scritto di non portare niente. Riesco a tenere in salvo gli “Oswego”…. Nella loro rigidità i poliziotti di NY si sono sempre mostrati sereni, disponibili e sorridenti come scritto sulle loro auto. Alla fine, passati gli ultimi due, tre, (o quattro?) metal detector, il Fulvio Massini, come un padre ci fa entrare nell’unica tenda disponibile per ripararci dai 6 gradi di temperatura e dal vento. Grazie Fulvio, fuori c’era chi si riparava contro la rete. Tuttavia, senza lamentarci del brodo grasso, per muovere anche solo l’alluce occorreva chiedere il permesso al “vicino di incastro”. Resto nella tana sino all’ora di consegnare la sacca, tanto essendo wave 3 verde partenza ore 10.30, ho tempo sino alle 09,50 circa. Verso le 9 però l’istinto mi porta fuori da quel multietnico lazzaretto odorante di canfora dove ti trovi a parlare col friulano, il colombiano il giapponese e l’americano in una esperienza veramente meravigliosa che ti fa capire che sei in un evento che un podista, lento o veloce che sia, almeno una volta nella vita dovrebbe vivere.
Esco, vado a cercare il the e trovo il distributore di acqua bollente nel quale immergo , tra lo stupore dei vicini, la bustina di The portata da Mantova. Non si sa mai, meglio non rischiare indigestioni o dissenterie. L’altoparlante annuncia simpaticamente che invece di 50 minuti di tempo per consegnare la sacca me ne restano 5. Col the in mano e l’ansia che esplode, come una pallina nel flipper cerco di orientarmi in quello sterminato Fort Wadsworth, con 50.000 persone che ho il piacere di conoscere da pochi minuti perché prima ero chiuso nel lazzaretto. E adesso? Vedo la gabbia degli arancioni in un angolo, trecento metri più in la i verdi, i blu intuisco siano dietro lo stabile perché vedo file ingobbite e silenziose avvolte in sacchi, tute bianche da verniciatore, esaltati in canottiera sicuramente pentiti, ma non confessi, che hanno letto 43 gradi. Si, ma sono Fahrenheit, i cento gradi sono 6!!! Del resto solo ieri c’erano 20 gradi per New York ,chi se l’aspettava? E la sacca? Dove la porto?
Vado alla tenda informazioni e mi dicono che ho pochi minuti per passare sotto il ponte e correre come un salmone per 400 metri in mezzo a migliaia di persone che ti vengono in senso contrario, ambulanze con motore acceso e con gli operatori seduti con cintura già allacciata, poliziotti a cavallo, sorveglianti sul tetto e due elicotteri della NYPD e dell’US Coast Guard che rombano sopra a ricordarti che anche con 45 minuti di anticipo sei comunque 5 minuti in ritardo. L’organizzazione è perfetta. Decine di furgoni marroni dell’UPS perfettamente allineati a scalare ti ritirano la sacca (devo assolutamente consegnare il telefono altrimenti non mi ritrovo più con la morosa all’arrivo, sempre che alla fine ci arrivi), poi ti giri e c’è il bidone per il recupero abiti da donare e appena spogliato mi ritrovo già in fila per le toilette. Di toilette non so quante centinaia ce ne fossero sparse per il forte, ma vedere una sola silenziosa e ordinata fila indiana davanti a 50 toilette per la prima che si liberava, mi faceva ridere perché ricordava il giorno di pagamento delle pensioni alla posta.
Vado alla tenda informazioni e mi dicono che ho pochi minuti per passare sotto il ponte e correre come un salmone per 400 metri in mezzo a migliaia di persone che ti vengono in senso contrario, ambulanze con motore acceso e con gli operatori seduti con cintura già allacciata, poliziotti a cavallo, sorveglianti sul tetto e due elicotteri della NYPD e dell’US Coast Guard che rombano sopra a ricordarti che anche con 45 minuti di anticipo sei comunque 5 minuti in ritardo. L’organizzazione è perfetta. Decine di furgoni marroni dell’UPS perfettamente allineati a scalare ti ritirano la sacca (devo assolutamente consegnare il telefono altrimenti non mi ritrovo più con la morosa all’arrivo, sempre che alla fine ci arrivi), poi ti giri e c’è il bidone per il recupero abiti da donare e appena spogliato mi ritrovo già in fila per le toilette. Di toilette non so quante centinaia ce ne fossero sparse per il forte, ma vedere una sola silenziosa e ordinata fila indiana davanti a 50 toilette per la prima che si liberava, mi faceva ridere perché ricordava il giorno di pagamento delle pensioni alla posta.
Ok, tutti pronti,ci si incammina al ponte e io partirò sotto. La canzone New York New York del Frank, se non hai ancora capito dove ti trovi, ti fa venire la pelle d’oca che sale sino alla testa mentre fai gli occhi da gatto per non inciampare in metalline, guanti, sciarpe, cappelli e addirittura calze! 10,32:Bum, colpo d’artiglieria, si parte. Ma dove? Se ogni wave sono più di 10.000 persone ora che “chippi” sulla pedana e fai partire il cronometro ci sta’ una partita a briscola! E vai! Entusiasmo, urla, emozione e attacchiamo il ponte in una salita di 40 metri tutti larghi nella corsia di sinistra. Il ponte è nostro! Si, si, aspetta di arrivare sull’oceano e si vedono volare i cappelli, corro a testa bassa per non perdere il mio, sento un rumore come se un folletto dispettoso spezzasse dei fogli di carta e vedo il mio pettorale che vibra e suona che è una meraviglia che sembra di essere a Trieste con la Bora. Altroché il ponte è nostro, tutti in fila indiana a ripararsi perché oltre al vento, per timore d’attentati vedo il viso del pilota dell’elicottero che si posiziona in hovering accanto al ponte e col rotore ci spinge addosso altro vento e l’inconfondibile odore del combustibile.
Finalmente usciamo dal ponte e il primo tifo che ci arriva è dai giardinieri della manutenzione strade, poi il pubblico. Qui il pubblico è la centesima parte di quello che troverò dopo, ma con tante maratone corse senza pubblico, in montagna dal solo con Lilli, la mia cagnolina Bastardina pluripremiata, sembra già tanto.
Da lontano scorgo la confluenza con i pettorali arancioni e blu, preoccupato che l’immissione possa essere come in autostrada per andare al mare. Di li a poco vengo risucchiato dal serpentone diviso prudentemente da uno spartitraffico con gente che urla ai lati, campanacci, bandierine, cartelli di incitamento, sento chiamare il mio nome scrittomi sulla maglietta di Podisti.Net dalla mia bambina e che ho voluto mettere per riconoscenza verso chi mi ha dato tanti consigli sulla trasferta già lo scorso anno e mi ha fatto sentire da subito “del gruppo”. Ormai sono ubriaco dalla folla, non capisco più niente, ma mi concentro per accorciare il passo, con i ragazzi del ristoro bravissimi nel loro impermeabile. L’uscita dal ristoro è marcata dalla colla lasciata dai sali sparsi per terra che assieme all’acqua ti trattengono le suole. Del resto sono già passate oltre 20.000 persone che hanno gettato i bicchieri…
Controllo il dolore, accorciando ancora di più il passo e il tempo al miglio mi delude, ma pazienza, avrei dovuto rimanere in Italia ed è già un buon risultato essere a Brooklyn. Arriviamo al quartiere ebraico ortodosso. Zero tifo, nessuno per strada, silenzio irreale, persino il poliziotto di quartiere ha le treccine. Mi conforta almeno l’incitazione dei miei colleghi pompieri davanti alla loro autoscala.
Fuori dal quartiere, passato il semaforo, una baraonda pazzesca quasi a scusarsi per quei concittadini musoni, silenziosi e poco cordiali. Vedo persino una cheerleader incinta prossima ai 40 anni che salta come una matta a tempo di musica coi tipici pon pon! Fuori dalla chiesa mezzo miglio più in la i coristi gospel, una ragazza accanto a me schizza verso le transenne perché trova gli amici al bordo strada e urlano lei e gli amici all’americana con lei che salta felice come una molla coi piedi a toccare i glutei...beata te, sapessi la mia schiena.
Rallento, accelero, non mollo. Cammino e dico: possibile che uno non può camminare che subito gli sono addosso con “go strong Paolo!” “don’t stop” e robe simili? Invece si, per la miseria! Non puoi mancare di rispetto a chi ti urla “go Italia!” e se anche sei morto perché sei giù d’allenamento, per rispetto a chi ci tiene a te in quel momento riprendi a correre. Il Queensboro Bridge, spauracchio dei maratoneti non..... mi spaventa, sono già cotto e posso solo migliorare.
Sulla First Avenue, come un mago, estraggo annidato nel cappellino il gel con caffeina, diluisco un poco di sali e quando riapro gli occhi chiusisi per il consumo di grassi e zero zuccheri sono davanti ad un chiassoso gruppo nel Bronx che ti urla di battere la mano su un cartone con disegnata una mano con scritto “batti il muro”. Sorrido, pensando che quello da noi è al trentesimo, loro il muro loro ce l’hanno al ventesimo miglio, cioè 32 km. e forse a loro la crisi viene dopo. Buon segno, vuol dire che la testa riprende ad andare. Un maxischermo ci riprende, cerco la telecamera per entrare anch’io nel " You Get The Marathon" e con i tamburi e il baccano spontaneo e genuino di quel quartiere casinista succede che riprendo le forze.
Sulla First Avenue, come un mago, estraggo annidato nel cappellino il gel con caffeina, diluisco un poco di sali e quando riapro gli occhi chiusisi per il consumo di grassi e zero zuccheri sono davanti ad un chiassoso gruppo nel Bronx che ti urla di battere la mano su un cartone con disegnata una mano con scritto “batti il muro”. Sorrido, pensando che quello da noi è al trentesimo, loro il muro loro ce l’hanno al ventesimo miglio, cioè 32 km. e forse a loro la crisi viene dopo. Buon segno, vuol dire che la testa riprende ad andare. Un maxischermo ci riprende, cerco la telecamera per entrare anch’io nel " You Get The Marathon" e con i tamburi e il baccano spontaneo e genuino di quel quartiere casinista succede che riprendo le forze.
Arrivo all’ennesimo ristoro dove mi guardo bene dal bere perché perdere l’equilibrio è un attimo. Acqua, sali, e da adesso BANANE che con la buccia gettata a terra da 30.000 persone in mezzo all’acqua dei bicchieri stendono un tappeto volante, ma è troppo forte, mai vista una cosa del genere. La salita di 40 metri sulla Fifth Avenue si fa sentire ma, purtroppo per gli altri, l’antinfiammatorio, il gel e i sali mi mettono appetito e inizio a mangiarmi uno dietro l’altro i podisti che mi avevano sorpassato in precedenza. Potrei correre ormai fino al 60° km, ma aspetta caro, perché alla fine ora che ritiri la sacca e sarai tornato in albergo saranno 50…e non 42. Stavolta sento urlare “Go Paoloooo!!!” da chi vede il mio vivace zig zag in mezzo agli stremati maratoneti. Vedo podisti, sono le tende della Croce Rossa.
Dai! Non mollare, vieni con noi all’arrivo.... dico dentro di me. Ok, il percorso studiato nel filmato mi dice che manca poco. La morosa mi segue sull’app ufficiale e sa che sono in Central Park, mi attende nella tribuna che le ho riservato, le si alza davanti un gruppetto di tifosi e…..non mi vede arrivare.
Dai! Non mollare, vieni con noi all’arrivo.... dico dentro di me. Ok, il percorso studiato nel filmato mi dice che manca poco. La morosa mi segue sull’app ufficiale e sa che sono in Central Park, mi attende nella tribuna che le ho riservato, le si alza davanti un gruppetto di tifosi e…..non mi vede arrivare.
Ci infiliamo nei tornelli, medaglia, foto con medaglia tipo foto segnaletica, metallina per il freddo che tante volte ho applicato ai feriti e che stavolta cerco di chiudere addosso a me mentre una gentilissima signora mi fa cenno di attendere e mi applica del nastro adesivo, cosa che mi commuove per la benevolenza di questo popolo che in ogni momento e col sorriso non ci ha fatto mancare niente, nemmeno gli incoraggianti schiamazzi. Avanti, avanti ci dicono, ci danno la sacca per bere e mangiare ma non fermarti. Se non hai la sacca degli abiti esci a sinistra, se ce l’hai prosegui un altro mezzo miglio fino a che sulla Columbus vedi la strada divisa tra i multicolori a destra di chi ha ritirato la sacca e si è vestita coi propri abiti e uno spettacolare fiume arancione a sinistra reso indimenticabile dalla prospettiva ondulata della strada e composto da mantelle arancioni distribuite dall’organizzazione a chi era “no baggage”.
E’ fatta, non ci posso credere, ho corso la maratona più famosa del pianeta avendo tutto contro di me, mi ritrovo con la mia signora che orgogliosa mi acquista il cappello di finisher e mi aiuta a trascinarmi in albergo distante 3 km. tra i famosi tombini fumanti, come un trofeo personale, come avesse corso anche lei la maratona aspettando tante ore al freddo per far sentire con le sue urla il calore a tutti noi partecipanti.
La soddisfazione continua a casa, con la medaglia portata in ambulatorio e la dottoressa, che tante volte mi ha visto soccorrere i suoi pazienti e che mi aveva vietato di andare, dice sorridendo: “lei è proprio matto!”