You are now being logged in using your Facebook credentials

Dal mondo

Calcutta (IND) - Tata Steel Kolkata 25k

17 Dicembre, 2017 Pasquale Venditti - Redazione Podisti.Net
Il favorito della vigilia l’etiope Kenenisa Bekele ha vinto a Calcutta in India la “Tata Steel Kolkata 25k” con il nuovo record del percorso di 1h13’49”, ad una media di 2’57”16 al km, Bekele oltre ad essere il Primatista mondiale dei 5.000 e 10.000 mt vanta…
Battocletti Alfierii foto Roberto Mandelli

Triangolare Europa, GBR e USA di cross: convocati Battocletti e Alfieri

14 Dicembre, 2017 Pasquale Venditti - Redazione Podisti.Net
Dopo la disputa a Samorin in Slovacchia dei Campionati Europei di corsa campestre i due giovani mezzofondisti azzurri, nati nel 2000 e appartenenti alla categoria Allievi, Nadia Battocletti (Atletica Valli di Non e Sole) e Luca Alfieri (PBM Bovisio Masciago)…

Amsterdam Marathon 2013 Maurizio RemagniL’ho promesso dal primo giorno che ho indossato le scarpette da running: ogni “grande gara” sarà la mia occasione per riprendere a scrivere, per raccontare e per raccontarmi attraverso le mie esperienze, le mie emozioni “di corsa”.

Anche stavolta perciò non posso sottrarmi, anche se la tentazione sarebbe quella di farlo, di evitare.

Perché? Perché stavolta è andata male, perché sono terribilmente deluso, terribilmente vuoto. Ecco cosa mi porto dentro, cosa mi porto a casa dalla “mia maratona di Amsterdam”: un grande senso di vuoto.

Il vuoto che ha accompagnato i miei ultimi km., un vuoto di energie, di testa, di gambe, ma soprattutto di “senso”. Quasi cosmico lo definirei.

Per l’amor di Dio non sto raccontando nulla di epico, nulla di “grande”, anche se le mie parole, un po’ enfatiche, sembrano farlo presagire. Parlo solo delle mie sensazioni, di quello che mi è accaduto nella terra dei tulipani.

Devo però partire da lì, dall’analisi di quel senso di vuoto, perché altrimenti non riesco a spiegare, a spiegarmi. Tutto, ora, infatti, a distanza di tempo, mi sembra offuscato: il “Vuoto” ha cancellato anche i ricordi. Quasi che un telo fosse calato sui miei giorni d’Olanda, di cui mi rimangono solo alcuni flashback, alcuni sbiaditi fotogrammi. Potenza della mente: rimozione inconscia degli eventi traumatici…

Meno male che ci sono le foto, i commenti dei miei (fanta) amici che testimoniano, che quel giorno io ero lì e ho corso per 42 chilometri. Ad onor del vero ne ho corsi 30, perché gli ultimi 12 definirli “di corsa” è esagerare. Ma li mi fermo sul 12, su quel numero che per me, da sempre, è sinonimo di fortuna, di buoni ricordi.

E’ il numero della mia stanza d’albergo a Forte dei Marmi, dove, negli anni ’70, trascorrevo le mie vacanze estive. La pensione del mio primo ricordo del mare, dei miei primi bagni nell’acqua fredda e limpida del mattino, del sale sulle focaccine del Forte. L’albergo delle “mie” prime meduse, ammirate di notte, dall’alto del pontile: animali magnifici e sconosciuti, tremendi nella loro, da me immaginata, “pericolosità”, che si mischiava al fascino della loro fluorescenza notturna.

E ancora il 12 nelle mie poche vincite al lotto e al casino, il 12 della lettera N dell’alfabeto, quella di mio figlio Nicola.

Stavolta però il 12 mi ha tradito, o meglio sono stato io a farlo.

A 12 chilometri dalla fine è cominciato – appunto – l’epilogo della mia gara, o per meglio dire avrei voluto io, che fosse lì. Invece la “tavola”, a quel punto, era ancora “imbandita e ben apparecchiata” e il pasto, lungi dall’essere consumato. A dire il vero le avvisaglie della crisi le avevo colte ben prima, lungo il fiume Amstel: un po’ di indurimento muscolare (e il collegato innalzamento dei “tempi al chilometro”) era già iniziato addirittura alla mezza maratona. Nulla però che facesse presagire quanto poi sarebbe successo.

Ho già detto dello svuotamento terribile del “serbatoio”, ma poco ho raccontato di cosa ho provato in quei momenti. Difficile parlare delle emozioni quando ci si trova così, improvvisamente soli nella moltitudine, smarriti, infreddoliti, con la testa che sa solo penzolare. Nessuna tensione mentale, tracciato piatto.

Gli incitamenti di coloro che mi hanno “notato”, zombie metropolitano, sono finiti per essere vacui stimoli. Parole liberate nel vento, come palloncini gonfiati con l’elio.

Grida e applausi, incapaci di fornire energia. Per l’amor di Dio, non che mi abbiano infastidito (almeno stavolta no), anzi in alcuni casi mi hanno permesso di scuotermi, di ritrovare concentrazione e un po’ di fiducia. In definitiva però si sono concretizzate, solamente, in pochi metri di corsa lenta (circa 200 su di un chilometro). E così ogni chilometro è stato gestito, scandito, snocciolato in un’alternanza continua di corsa-non corsa. Ogni passo è stato accompagnato dal mio sguardo a terra, incapace di alzarsi, di guardare oltre, di guardare lontano, in cerca di riferimenti che non fossero solo i cartelli “segna-distanze”.

La città mi è sfuggita via, ha finito per essere uno sfondo sbiadito, senza che io ne ricavassi un ricordo, un frammento degno di nota, sebbene l’attraversassi a passo d’uomo. Per assurdo nemmeno l’asfalto a cui guardavo, arrancante, ha lasciato in me qualche indelebile impressione. A chi mi chiede se c’erano tratti con sampietrini o pavè, io non so rispondere. Non mi ricordo ponti o dislivelli particolari, degni di nota, non ricordo chiese, edifici, facce, culi o persone: nulla.

Così come nullo mi è parso in quei momenti il mio confronto con l’orologio, l’alternarsi dei tempi, il ronzio degli sberleffi del mio alter ego! Anzi ad un certo punto, il runner performante, quello del personal best, con il quale anche stavolta mi sono misurato, mi è sembrato non fosse più avversario ostile e fosse invece lì al mio fianco, più che a deridermi, a sostenermi.

Allucinazioni da fatica? Non penso. Forse proiezioni interiori, che ho voluto cogliere, fare mie, in quegli interminabili momenti di smarrimento.

Qualche fotogramma sono riuscito comunque a catturarlo, a conservarlo: si tratta per lo più di qualche viso particolarmente sorridente, di qualche incitamento proveniente da altri podisti (soprattutto italiani, che vedevano un loro connazionale (avevo il tricolore e il nome sulla maglia), camminare piano, ai lati della strada). E poi ricordo, al 38° chilometro, l’ingresso al parco pieno di gente che correva e tanta altra che incitava. Mille mi hanno superato in quei momenti e la cosa non mi è parsa nemmeno interessante, stimolante. Questa volta il vedersi “passato via” da gente “mostruosa” (così mi sembrano gli altri quando mi superano) non mi ha scosso, elettrizzato. Speravo solo di trovare, al più presto, la finish line. Ho pensato anche di ritirarmi, ma non ero lì per fare quello…

Solo all’ultimo chilometro ho ritrovato un po’ di energia, riprendendo a correre: non potevo accettare di arrivare nello stadio Olimpico di passo. Lì tanti anni prima di me, altri atleti si erano battuti, per vincere medaglie olimpiche, in un’epoca in cui le scarpe da ginnastica erano ancora di cuoio. Era giusto onorarli correndo e così ho fatto. Devo dire che all’interno dello stadio ho provato l’unica vera forte emozione della mia gara: è stata quella di vedersi accolto ed applaudito da altri concorrenti, in procinto di uscire dall’impianto. Erano quelli arrivati poco prima di me, ancora avvolti in teli di plastica anti freddo. Vedere chi aveva ancora la fatica nel viso, nelle gambe, che rimaneva lì in piedi, ad applaudire gli “atleti” più “scarsi” mi ha dato un grande brivido.

In quella “con-fusione” ho attraversato il traguardo, privo di energie e soprattutto di “testa”. Ho fatto tutto meccanicamente: mi sono guardato in giro per scorgere, purtroppo senza successo, Saverio (che sapevo essere già arrivato) e Mirco (che era sugli spalti). Niente da fare.

Così mi sono messo al collo la medaglia, senza neanche guardarla, ho fatto un po’ di stretching e coprendomi appunto con un “telo di plastica”, ho girovagato per un po’ in cerca di qualcuno, in cerca di un viso conosciuto. Niente da fare.

Perciò sfinito e infreddolito ho deciso di tornarmene in albergo: quattro chilometri percorsi “all’indietro”… In tutti i sensi! All’indietro perché per gran parte erano lungo il percorso finale della Maratona, all’indietro perché lì ho camminati, sforzandomi di “pensare e ri-pensare” a quanto mi era accaduto.

Mi è sembrato interminabile quel breve tragitto. Amsterdam mi pareva la città più “fredda” del mondo, e io non capivo, però, che il “freddo”, veniva da me. Ho snocciolato ogni metro “verso casa”, guardando a terra, per non incrociare lo sguardo “stranito” di chi era per strada. D’altronde come biasimarli: in quel telo di plastica che mi avvolgeva, che quasi mi faceva da mantello, sembravo un super-eroe “caduto”, un “vinto”.

E poi è venuta la doccia calda dell’Hotel che mi ha scaldato il corpo, lasciandomi però gelido il cuore.

Per riprendermi ci sono voluti i miei amici. Infatti, ho provato un sussulto solo quando li ho rivisti. E’ stato bellissimo avvicinare la loro gioia, tanto contagiosa quanto incontenibile.

Tutti, a loro modo, avevano fatto un’impresa. Saverio aveva corso in surplesse, permettendosi di “tirare” alla fine un “italiano in crisi”, Marco, aveva vinto un infortunio al polpaccio, rimediato dopo pochi chilometri, godendosi il percorso prima e l’arrivo poi (in un gran tempo). E infine i 3 eroi Alle, Kedi e Silvano, alla loro prima maratona, arrivati alla “fine” contro ogni pronostico. Correndo, arrancando, camminando e soffrendo: la vera essenza della Maratona, quella fatta di impegno, coraggio, voglia di arrivare. Non conta il tempo impiegato per dare il valore della loro impresa, conta, appunto, onorare la loro abnegazione e l’impegno profuso.

Allora mi sembravano dei marziani, dei miti e oggi, a distanza di tempo, ho ancora più vivida e consolidata questa immagine, questa idea. Vederli provati, stanchi, scavati nelle rughe, storti e claudicanti, ma fieri della loro medaglia, mi ha fatto capire che cosa mi era mancato, che cosa non c’era nel mio Vuoto: una Vera Motivazione.

Non avevo saputo nel mio percorso lungo l’Amstel preservare quel valore, quella fiammella. L’avevo fatta spegnere, soffocata. Mi ero privato della luce, quella interiore, quella che guida i maratoneti alla fine della loro fatica. Quella che dà loro la forza negli ultimi chilometri.

In definitiva non ero riuscito a rendere vero, il detto coniato da Silvano proprio in quei giorni: “non avevo fatto sì che oggi fosse già domani”. Non avevo cioè “gabbato” il presente - fatto di fatica e abbattimento - sostituendolo con la realizzazione di un Sogno, solo temporalmente incastonato nel futuro: quello di finire ancora una volta, decentemente, una Maratona.

Un tormentone ridicolo, nato da un errore di traduzione, che invece doveva essere per me uno stimolo, un elemento guida, un riferimento.

Non l’avevo capito, quanto fosse “vera” quella stupida formuletta, quella frase buttata lì. Oggi lo so e perciò mi accingo a correre la prossima Maratona, quella che mi ero ripromesso non avrei fatto, con questo spirito, con la voglia di far sì che “oggi sia già domani…”

facebook2 youtube2  googleplus33 instagram rss 

Classifiche recenti

There are not feed items to display.
  • Check if RSS URL is online
  • Check if RSS contains items

Login Redazione

 

Foto Recenti

There are not feed items to display.
  • Check if RSS URL is online
  • Check if RSS contains items