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(Nella foto, l'autore - a sinistra - coi due amici supermaratoneti Hartmann Stampfer e Mario Liccardi)
Una vivace attività culturale, segnata dai caffè letterari e dall’amore per la musica lirica ha caratterizzato Parma nella prima metà del ’900. Il nome di questa città d’arte evoca senza indugio quello di Giuseppe Verdi; tuttavia, limitarsi al “Cigno di Busseto” sarebbe riduttivo, perché la presenza della musica nella storia della città è ben più ricca e variamente connotata. Essa ha dato i natali ad Arturo Toscanini, è stato il luogo di formazione di Renata Tebaldi e patria di Carlo Bergonzi. Lo sviluppo dell’agricoltura moderna, dell’alimentare e della tecnologia relativa, delle industrie Bormioli, Braibanti, Barilla, ecc. all’inizio del XX secolo ha dato un impulso notevole all’economia locale ed ha segnato la crescita della società parmense. Grazie ai suoi prodotti tipici, ad una moltitudine di piccole e medie imprese, Parma ha scalato le classifiche della qualità della vita, raggiungendo uno standard ottimale a livello nazionale, europeo ed anche mondiale. Parma oggi significa Parmigiano e Prosciutto, Fiere, Teatri e Parma Calcio.
Fatta questa premessa, le mie ormai tardive riflessioni sulla maratona saranno più brevi.
Arrivato in hotel, il tempo di depositare la valigia e sono in centro. Una gran quantità di locali dà sfoggio di svariate qualità e quantità di manicaretti ma d’altronde, siamo in Emilia e si sa, la cucina è una delle cose per cui loro vanno fieri.
Nell’attraversare la strada in piazza Garibaldi, un incontro inaspettato con Gianni Baldini, simpatico amico con cui passerò la giornata. Con lui mi dirigo in via Farini al ristorante “Ai Tribunali” noto per la sua cucina tipica parmense: è un trionfo di ogni ben di dio, tortelli in tutte le salse, prosciutto, parmigiano in scaglie etc;. ma mi limito ad un assaggio del primo accompagnato dai gustosi gnocchi fritti, rimandando il secondo per la cena. Fa seguito la visita al centro maratona per il ritiro pettorali e al bellissimo centro cittadino con i suoi monumenti più importanti.
La mattina mi avvio verso la zona partenza ubicata nella Cittadella, la ben conservata fortezza pentagonale di Parma all’interno della quale verrà dato il via. Il percorso si snoda dapprima al suo interno per poi avviarsi nel centro storico della città e penetrare nel Parco Ducale mettendo in mostra tutto lo splendore di questa antica capitale. Si attraversano poi i ponti che tagliano il torrente Parma, scendendo verso sud. Sette chilometri per poi lasciare la città e tuffarsi tra le campagne, mai monotone, e attraversare le frazioni di Alberi, Vigatto, Panocchia, Piazza, Basilicanova e Porporano Il ritmo è buono e in proiezione mi illudo di poter scendere sotto le quattr'ore; ma così non sarà in quanto, dopo esser passato alla mezza in meno di 2 ore, avverto una certa stanchezza a gambe e polpacci complici forse la velocità un po' più sostenuta del solito, il caldo ma soprattutto la fatica accumulata nelle ultime tre ultra.
I primi 21 km di gara sono in lieve salita, non avvertibile più di tanto, ma tali da indurire le gambe; la seconda parte, in gradevole discesa, è tale da invogliare a tentare una progressione.
Un lungo rettilineo e finalmente si torna in città, si attraversa un ampio viale alberato per poi piegare ad angolo retto, non più di 200 metri per giungere alla porta della Cittadella ove la maratona si conclude: per me, senza infamia e senza lode, finisher con 4.05:18, ma porto a casa un gran senso di gioia.
Evento ben organizzato, deposito borse piantonato dal personale, e poi ci è stata data la possibilità di effettuare una doccia calda presso gli spogliatoi dello stadio Tardini, occasione questa per i calciofili per visitare uno dei templi italiani di questo sport.
Come in tutte le maratone, difficilmente si resta indifferenti, esse lasciano un segno indelebile che serve come esperienza per affrontare nuovi limiti. Rimane un bagaglio umano di notevole spessore, ci si mette in gioco per testare la propria resistenza fisica, la capacità di sostenere certi ritmi, superare i propri, ascoltare interiormente se stessi e le proprie emozioni, le fatiche, percependo alla fine valori essenziali, quale il rapporto con gli altri.
Dostoevskij aveva ragione: “La sofferenza è la sola origine della coscienza”. La fatica è qualche cosa di magico per cui la corsa rimane terapia infallibile.