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Prendo spunto dal commento del direttore a termine dell'articolo sul Trail di Corniglio, per cercare una spiegazione a comportamenti che potrebbero apparire illogici e che ci fanno prendere rischi inutili.
Fabio si riferisce a una mia osservazione su alcuni passaggi di tipo quasi alpinistico, almeno se giudicati con l'occhio del normale podista/trailer, che abbiamo affrontato in gara; e giustamente si chiede quali sarebbero state le conseguenze di eventuali incidenti, ipotizzando nel contempo che la causa di scarsa partecipazione sia in parte dovuta al tipo di percorso.
Non sono concorde per due motivi: il primo è che nella presentazione della gara non era affatto esplicitato che ci sarebbero stati passaggi così impegnativi, cosa invece evidenziata al momento del briefing pre gara (ma ovviamente chi era iscritto difficilmente si sarebbe tirato indietro). Il secondo motivo, assai più legato alla natura umana, è che in tutto quello che l'uomo pratica per diletto la ricerca è sempre orientata al "di più", ad alzare l'asticella della gratificazione personale nel poter poi dire "al mondo" : "io c'ero e ce l'ho fatta". O forse per soddisfare un proprio egocentrismo, che ci porta a credere di avere pochi limiti.
Il trail in questi anni ha costituito un esempio lampante di quanta fame di "gigantismo" ci sia in atleti, organizzatori e sponsor; e se le ultime due categorie obbediscono giustamente alla legge della domanda/offerta, la ns. categoria di concorrenti si esalta invece per poter tentare l'impresa che a volte è palesemente "oltre" e non "ultra" le ns. possibilità. Gare di 330 km, considerate tra le più dure al mondo con migliaia di iscrizioni per 700 posti, come fosse il concorso per commessi del senato, non sono più sufficienti: se è vero, come è vero, che la regione ospitante, cioè la Val d'Aosta, trovandosi in disaccordo con gli ex amici organizzatori, si premura di mettere in pista una gara "di consolazione" per gli sfortunati non sorteggiati, ma portando i km a 350 e aumentando il dislivello di 1000 m per un totale di 25.000 metri; e per mettere un pizzico di pepe in più la organizza esattamente la settimana precedente.
Questo per dire che il serbatoio di affamati di estremo è assai vasto e siamo lontani dall'aver raggiunto la vetta, anche perché il fenomeno non è affatto nuovo: parecchi lustri or sono, non avendo ancora responsabilità genitoriali, mi sono dedicato per alcuni anni alle discese fluviali in kayak (tipo quelle delle pubblicità) con salti dalle cascate, rovesciamenti e successivi eskimi (raddrizzamenti) in mezzo alle rapide più impetuose, andando a cercare fiumi sempre più impegnativi per sperimentare nuove emozioni. Ebbene, mentre il ns. gruppo di giovani malconsigliati si dedicava a tali passatempi curando però costantemente il fattore sicurezza - le tecniche ci sono ma non voglio annoiare chi legge con un trattato di discesa -, era invece famoso un Club canoistico germanico, guarda caso, che si faceva vanto di percorrere solamente i tratti più pericolosi delle discese e con sicurezze ai minimi termini, potendo così fregiarsi del titolo di canoisti più estremi d'Europa; e nel contempo, di quello del maggior numero di incidenti.
Ciò che ritengo di primaria importanza è comunque la facoltà che tutti noi abbiamo della libera scelta: non siamo costretti a scendere in miniera per mantenere la famiglia, dobbiamo solo decidere se questa o quella gara fa per noi ma, come ha detto Marco Olmo alla presentazione della ultima Dolomiti Extreme: "Ragazzi, ricordatevi che è solo una gara e non la vita". Una sintetica frase che semplifica assai la questione, anche perché ogni organizzatore accorto affianca alla gara regina percorsi più semplici e brevi che ci possono accontentare in base alle ns. esigenze di competizione.