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Dopo estenuanti peripezie, attraverso sentieri franati, paesi completamente rasi al suolo e strade piene di massi rotolati dalla montagna, nel tardo pomeriggio di domenica 30 ottobre riuscii finalmente a raggiungere il mio villaggio, ma con mia sorpresa lo trovai completamente abbandonato. Nel primo mattino, una fortissima scossa tellurica mi aveva sorpreso in alta montagna, mentre accompagnavo un turista in escursione, e da quel momento il mio telefonino aveva smesso di funzionare; e mentre da un lato la premura professionale mi spingeva a portare in salvo il compagno d'avventura, dall' altro ero preoccupato per la mia famiglia, che fortunatamente avevo lasciato ancora nel sonno della roulotte. Una pattuglia di poliziotti coadiuvati da alcuni vigili del fuoco mi chiese le generalità, informandomi che la mia famiglia come tutto il paese si trovava già in un albergo della costa adriatica; a malincuore, dovetti raggiungerli. Nella piccola hall dell' albergo riabbracciai finalmente mia madre, mio fratello ed i miei nipoti.
I giorni successivi furono intensivamente caotici, tra tentativi di recupero di capi d'abbigliamento e socializzazione forzata tra gli ospiti della piccola e linda struttura, ben gestita da Massimo e mamma Enrica (rispettivamente figlio e moglie del grande portiere Piero Persico, bergamasca gloria del calcio rivierasco e preparatore di grandi numeri uno). Enrica e la famiglia di Massimo si erano fatti in quattro per farci sentire a nostro agio, cercando di accontentare quella folta pattuglia spaurita di sfollati, una ottantina, provenienti un po' da tutte le zone del cratere. Pian piano la serenità era tornata nel volto dei clienti, e persino il mio compagno di tavolo Marcello, sempre scontroso, spaurito e piegato sul bastone, ora sorrideva, passeggiava ringalluzzito e giocava interminabili partite a carte con mia madre.
Nei giorni di sole osservavamo dalla terrazza interminabili file di camminatori -podisti che percorrevano la ciclabile e lo splendido lungomare di Porto d'Ascoli, e i miei paesani si stupivano del fatto che mentre a Spelonga ero solo io a correre tutti i giorni, qui c'era tanta gente come me con la passione della corsa. "Dai Vittò, buttati anche tu nella mischia, tanto qui non c'è altro da fare !", mi dicevano quasi tutti. Certo, addio legna da spaccare per l'inverno, addio orto, pollaio e neve da spalare; dovevo tornare per forza a correre, altrimenti sarei morto d'inedia. Lo feci in una sera di pioggerellina leggera, mentre tutti già in riviera correvano imbacuccati: scesi in strada rabbiosamente, in maglietta di cotone e pantaloncini, e dopo alcuni metri sul marciapiedi sentii l'irresistibile richiamo del mare. Attraversai il tratto di sabbia mossa e raggiunsi il bagnasciuga, dove avevo corso tante edizioni della Maratona sulla Sabbia. Accompagnato dal melodioso rumore della risacca risalii fino alla foce del torrente Albula, dove stanno costruendo una piccola diga frangiflutti, che percorsi più volte, all' infinito, avanti indietro, cercando appoggi propriocettivi primordiali sui grossi massi di travertino che la componevano.
Da allora ci sono tornato spesso, correndo e saltando su quei blocchi grezzi, bianco-rosati; tra gli sguardi stupiti dei pescatori sento sotto i miei passi un po' delle mie montagne che ora sono qui a farmi compagnia tra le onde di un mare amico.